da www.strill.it
La buttiamo lì così, tutta d'un fiato perchè non la vogliamo filtrare da ragioni di "opportunità" che, come scritto più volte, sono estranee alla logica genetica e funzionale di strill.it: ma non è che, forse, a Reggio, in Calabria il valore supremo della vita umana è un pò più annacquato che altrove?
Non si può restare indifferenti rispetto alla sequela infinita di fatti di sangue, poco importa se originati da logiche di 'ndrangheta o da dinamiche di interessi familiari.
Certo, ogni generalizzazione è un errore a priori, ma, necessariamente, quando si deve analizzare un comportamento sociale non è possibile prescindere dai numeri, dalle statistiche.
Quelle stesse statistiche che ci dicono, da sempre, che in Calabria si ammazza con molta più facilità che altrove.
Ecco dove, probabilmente, entra in ballo il concetto di disvalore nella collettività.
Perchè se questo vacilla in assoluto, anche rispetto alla morte dei criminali più incalliti (quante volte ci siamo stretti nelle spalle chiosando un omicidio di 'ndrangheta con la fatidica frase "tanto, si ammazzano tra di loro"?), poi, giorno dopo giorno, come una macchia d'olio o, se preferite, un cancro, si allarga, si estende.
E, passata la concezione del disvalore con l'interruttore - a seconda, cioè della vittima - essa poi viene metabolizzata e, ahinoi, applicata, da chi mutua il principio del "disvalore condizionato" ma secondo le proprie concezioni etiche, culturali, morali.
E per ciascuno ci sarà sempre un interruttore, un qualcosa in nome del quale il valore supremo della vita umana può soccombere. Per onore, per soldi, per ira, per quello che volete.
Con un campo di applicazione di questo principio che si estende ogni giorno di più e spazia, secondo le logiche più differenti, dalla cosca che, in nome del "business", ormai accoppa anche donne e bambini (una volta questo limite non veniva mai valicato), al figlio di buona famiglia che arriva all'estremo gesto per interessi economici, piuttosto che a colui il quale imbraccia il fucile e spara perchè esasperato dai rumori di una moto.
Forse in Calabria, quasi geneticamente, ormai, abbiamo fatto troppo il "callo" al sangue, ad i morti ammazzati ed a convivere con una situazione per la quale in una provincia se un anno si chiude con "soli" 20 omicidi si brinda a campagne.
Tutto mettendo ogni giorno sotto i piedi i principi di una morale che, come diceva Longanesi, per troppi, ormai, si identifica solo con la conclusione delle favole.
Non si può restare indifferenti rispetto alla sequela infinita di fatti di sangue, poco importa se originati da logiche di 'ndrangheta o da dinamiche di interessi familiari.
Certo, ogni generalizzazione è un errore a priori, ma, necessariamente, quando si deve analizzare un comportamento sociale non è possibile prescindere dai numeri, dalle statistiche.
Quelle stesse statistiche che ci dicono, da sempre, che in Calabria si ammazza con molta più facilità che altrove.
Ecco dove, probabilmente, entra in ballo il concetto di disvalore nella collettività.
Perchè se questo vacilla in assoluto, anche rispetto alla morte dei criminali più incalliti (quante volte ci siamo stretti nelle spalle chiosando un omicidio di 'ndrangheta con la fatidica frase "tanto, si ammazzano tra di loro"?), poi, giorno dopo giorno, come una macchia d'olio o, se preferite, un cancro, si allarga, si estende.
E, passata la concezione del disvalore con l'interruttore - a seconda, cioè della vittima - essa poi viene metabolizzata e, ahinoi, applicata, da chi mutua il principio del "disvalore condizionato" ma secondo le proprie concezioni etiche, culturali, morali.
E per ciascuno ci sarà sempre un interruttore, un qualcosa in nome del quale il valore supremo della vita umana può soccombere. Per onore, per soldi, per ira, per quello che volete.
Con un campo di applicazione di questo principio che si estende ogni giorno di più e spazia, secondo le logiche più differenti, dalla cosca che, in nome del "business", ormai accoppa anche donne e bambini (una volta questo limite non veniva mai valicato), al figlio di buona famiglia che arriva all'estremo gesto per interessi economici, piuttosto che a colui il quale imbraccia il fucile e spara perchè esasperato dai rumori di una moto.
Forse in Calabria, quasi geneticamente, ormai, abbiamo fatto troppo il "callo" al sangue, ad i morti ammazzati ed a convivere con una situazione per la quale in una provincia se un anno si chiude con "soli" 20 omicidi si brinda a campagne.
Tutto mettendo ogni giorno sotto i piedi i principi di una morale che, come diceva Longanesi, per troppi, ormai, si identifica solo con la conclusione delle favole.