mercoledì 30 giugno 2010

Il grande imbroglio di Reggio

da www.strill.it - Mettere il dito nella piaga può essere esercizio stupido ed autolesionista se si ha percezione completa e viva dell’esistenza della piaga medesima, operazione dolorosa ma necessaria se,

invece, per superficialità, comodità o vigliaccheria si mente a sé stessi ed agli altri dicendo che la piaga non c’è.

Ed allora, visto che ci hanno insegnato da piccoli che le cose o si fanno bene o non si fanno, la piaga del “grande imbroglio”, quello relativo all’economia “drogata” di Reggio va attenzionata ancora ed approfondita nelle sue sfaccettature più nascoste.

Non pare validamente controvertibile l’assunto indicato nell’editoriale “Reggio: il grande imbroglio” secondo il quale l’impalcatura che sorregge da anni il benessere reale reggino (e spesso calabrese), spinto ai livelli delle massime espressioni sociali occidentali è in buona parte figlia di un’operazione che l’ha drogata: la continua immissione nel circuito di capitali sporchi, frutto di attività illecite, cosa che genera una situazione, appunto, “drogata” sotto un duplice angolo di visuale.

Quello diretto, costituito dalle numerose attività direttamente o indirettamente riconducibili alle cosche e quello indiretto, rappresentato dalla spropositata quantità di denaro(sporco) a disposizione di una moltitudine di persone e che, in un sistema economico chiuso come il nostro, finisce per restare all’interno del circuito creando benessere del quale si giovano le numerosissime attività d’impresa e di commercio, perfettamente pulite, presenti sul territorio.

Ora, l’aggressione (fin qui appena accennata) della magistratura ai gangli dell’economia schiude, ove, come ci auguriamo dovesse trovare in futuro applicazione compiuta, scenari nuovi e dalle conseguenze rivoluzionarie per gli assetti e gli equilibri socio-economici cittadini.

E, stavolta lo diciamo a chiare lettere, potrebbe essere osteggiata da una parte dell’imprenditoria e della borghesia che, sia pure senza aver nulla a che vedere con la ‘ndrangheta, nella situazione da questa creata ci sguazza per motivi per lo più di positive conseguenze economiche generali, ma non solo.

E’ ben noto, infatti che se da un lato la criminalità strangola un certo tipo di imprese, dall’altro, con l’immissione di soldi che alimentano un certo tipo di consumi nel sistema, rende floride altre attività perfettamente lecite e, tutto sommato, i risultati in termini di consumi collettivi sono ogni giorno sotto gli occhi di tutti.

Un’aggressione sistematica e continua alla disponibilità di capitali da immettere nel sistema, unita ad un’analoga azione nei confronti delle realtà commerciali (si badi bene, quasi mai produttive) controllate dalle cosche attraverso una miriade di insospettati più che insospettabili porterebbe l’economia cittadina (e non solo) all’anno zero.

E qui siamo al nocciolo della questione: siccome la città, da sempre, è bravissima a chiudersi, a far muro rispetto agli interessi, riproducendo in piccolo quanto accade nelle alleanze di ‘ndrangheta, con nemici giurati da tempo pronti ad abbracci improvvisi pur di salvaguardare gli interessi di portafoglio, l’interpretazione di questa (ancora ipotetica situazione) rappresenta le colonne d’Ercole sulle quali rischia di infrangersi ogni sogno di gloria di chi spera ancora in un futuro di resurrezione e in qualche modo di redenzione della città.

Ne siamo certi: questi nostri pezzi saranno presi ad esempio, stravolgendone più che strumentalizzandone il senso, proprio da chi da queste colonne noi vogliamo additare al pubblico ludibrio. Se la Procura di Reggio proseguirà sulla strada intrapresa qualche mente “nobile”, qualche cavaliere senza macchia e senza peccato dirà che è ora di finirla, che anche Strill.it aveva scritto che Pignatone e compagni stanno mettendo in ginocchio l’economia cittadina.

Lo diciamo noi, da queste colonne (non soli ma in compagnia di un numero di compagni tale da non poterci fare nemmeno una partita di basket): è ora di finirla.

E’ ora di finirla di raccontarsi frottole, è ora di finirla con una città che nel suo complesso vive al di sopra delle proprie possibilità (pulite) da decenni. E sapete come si vive al di sopra delle proprie possibilità? In due modi, o facendo debiti o, appunto, sfruttando i capitali sporchi immessi nel sistema.

In entrambi i casi la ‘ndrangheta brinda a champagne, visto che la prima situazione porta dritti i debitori nella tana del lupo a chiedere loro aiuto (soldi), cosa che in breve si tramuterà nel controllo dell’attività da parte delle cosche, e la seconda, come detto, è generata proprio dalla liquidità prodotta dalle attività illecite e che, vuoi per ignoranza di gente che pare direttamente uscita da una novella di Verga, vuoi per necessità di spendere, finisce, come detto, nel sistema.

Lo ripetiamo: è ora che si scoperchi il pentolone di una città finta, drogata,a costo di dover ripartire da uno scenario quasi post-bellico. Meglio pane e cipolla vero che caviale e champagne figlio di una ricchezza fasulla in una città che, tra l’altro, non producendo nulla, da qualche tempo si è inventata il boom delle società di servizi, cosa che, in un sistema chiuso, può rappresentare una parte importante, ma a condizione che i capitali necessari per generare la crescente domanda di servizi medesimi provengano dalla produzione e dalla commercializzazione su un mercato esterno di qualcosa. In caso contrario, e torniamo al punto di partenza come in un perverso Monopoli, solo i soldi sporchi di partenza e puliti in arrivo immessi nel sistema possono sostenerlo.

Ma siamo così certi che tutta la parte buona della città sia disponibile ad accettare l’estremo sacrificio? Siamo così certi che tutti i genitori della media ed alta borghesia abbiano la voglia e la capacità di spiegare ai figli diciottenni che è meglio camminare in autobus piuttosto che in auto da 25.000 euro ma vivere in un contesto migliore, più pulito, eticamente più apprezzabile e che dia contestualmente chances anche a chi, invece, non riesce a mettere insieme il pranzo con la cena?

Su questo snodo si aggredisce la vera anima, il problema di fondo dell’intera società moderna che, però, in questa fase storica del Paese e, in modo ancora più evidente, della Calabria pare stia raggiungendo la sublimazione. La nostra società, la nostra città, nelle sue parti più influenti pare che abbia da tempo sciolto il dilemma di Erich Fromm scegliendo senza indugio l’avere sull’essere, a qualunque costo, senza curarsi dell’imbarbarimento conseguente per il nucleo sociale ed anche per i singoli.

In quanti, sempre più giovanissimi, non hanno nemmeno lontanamente tra i propri obiettivi di vita quelli legati alla crescita personale, etica, culturale, alla scalata sociale sotto forma di spessore della persona e solo dopo la ricerca – atteso che i livelli minimi di dignitosa vita sociale sono abbondantemente garantiti – anche legittima se perseguita in modo onesto, di miglioramenti sul piano della disponibilità economica?

Quanta gente senza né arte né parte conosciamo? Quanti sono coloro i quali non hanno alcuna collocazione nella scala sociale, sono del tutto privi di basi di conoscenza prima e di cultura poi tali da ritagliarsi uno spazio in società a prescindere dalla cilindrata dall’auto dalla quale scendono e però, nonostante tutto, hanno quest’ambizione sfrenata di essere qualcuno, di apparire, cosa che possono ottenere solo con la tecnica di Mazzarò, accumulando, a qualunque costo, roba su roba?

Solo gli ‘ndranghetisti? Suvvia, non diciamoci ancora un’altra bugia, viviamo uno dei momenti più bui del nostro tempo post-moderno, l’avere ha di gran lunga travolto l’essere in una lotta forse impari ma che per qualcuno, Strill.it è tra questi, vale ancora la pena di combattere gioiosamente, come tutte le battaglie perse.

E chi è senza né arte né parte, chi non è nessuno per la società eppure ambisce ad essere qualcuno quale sistema ha, oltre alla roba, per stare in cima? Ovviamente il potere, ed ecco che allora, anche qui, i personaggi in cerca d’autore, i fenomeni da baraccone della politica (locale e non solo) proliferano giorno per giorno e, naturalmente, non avendo alcuna collocazione sociale, sono pronti a vendere l’anima al diavolo pur di restare a cavallo, altro che 15 assunzioni “vendute” qua o là…

Ma ci siamo mai chiesti in quanti, tra politici ed amministratori, se scendessero dalla giostra, sarebbero dei signor nessuno in città o, peggio, avrebbero il serio problema di trovarsi un lavoro, visto che alle soglie degli “anta” non ne hanno mai fatto uno né, ovviamente, hanno i titoli di studio (in molti casi diplomi comprati a quattro soldi) e le conoscenze per averne uno?

E secondo voi, lettori di Strill.it, tutta questa gente, questa nuova borghesia cittadina, fatta di roba e di potere (spesso da basso impero, quasi da pollaio) come accoglierebbe un’azione della magistratura tesa a scardinare il sistema e, in un colpo, ad azzerare il sistema-roba ed il sistema-potere?

Ecco, siamo arrivati a fine corsa, alle conclusioni del ragionamento e, speriamo, all’innesco di un dibattito dal quale non si può sottrarre un’intellighenzia cittadina ancora esistente, ma afasica, forse in coma e che però viene meno ai propri doveri rendendosi in qualche modo complice.

Noi preferiamo pane e cipolla, preferiamo l’essere, allo champagne, all’avere purchessia. Il coraggio di Pignatone e soci nell’aggredire l’inaggredibile fanno venire a noi di Strill.it, i più giovani, i più inesperti, gli ultimi arrivati nel circuito mediatico regionale, la faccia tosta di urlare che il re è nudo, mentre altri nostri colleghi si spendono nel medesimo tentativo, altri continuano a strombazzare che il re è perfettamente vestito ed altri ancora, mentre passa il re, invece di guardare lui, invitano tutti quanti a girarsi dall’altro lato a guardare il mare…

mercoledì 16 giugno 2010

Bigotti, falsi, immorali, travolti da cazzate, l'apoteosi dei vizi privati e delle pubbliche virtù. Ma cosa siamo diventati?


da www.strill.it - Mia figlia ha poco più di due anni e mezzo e conosce perfettamente la differenza che passa tra il cavallo ed il disegno del cavallo. Ha

definitivamente acquisito il concetto per il quale l’immagine evoca il soggetto ed è, in qualche modo “finta” rispetto all’essenza dell’animale. Sa anche che il disegno può essere molto utile per “fare finta”, per evocare situazioni che, altrimenti – vivaddio – non potrebbero essere realizzate senza danni irreparabili.

In questo Paese qualcuno degli otto-omini-otto che decidono del bene e del male su Facebook ha deciso che la foto che vedete e che anima, identifica e simboleggia la rassegna di Urba/Strill.it, “Tabula rasa” fosse troppo forte ed ha ritenuto ciò sufficiente per cancellare definitivamente ben tre account della manifestazione che in 48 ore avevano raccolto oltre 1500 adesioni.

Ora, il problema – ahinoi – va ben oltre Facebook, del quale, alla fine, pur non disconoscendo la sua straordinaria portata, si può anche fare a meno . Il problema vero siamo noi: ma cosa siamo diventati? Cosa è diventato questo Paese? Cosa ci è successo?

Un Paese di ipocriti di false moralità e bigottismo spinto, il trionfo dei vizi privati e delle pubbliche virtù.

“Tabularasa” nasce da un’idea e da ferrea volontà di Raffaele Mortelliti e del sottoscritto e nasce, evidentemente, spinta da un’esigenza ormai ineludibile che è la medesima simboleggiata in quel meraviglioso scatto. L’esigenza è quella di provare a respirare, di provare ad aprire un varco in questa chiusura totale che la nostra società ci regala quotidianamente imbottendoci a colazione-pranzo-merenda-cena di culi-calciatori-veline-gossip-cantanti-vacanze.

L’altra sera ero in automobile intorno alle 20 ed ascoltavo Radio 24 che a quell’ora ripropone i titoli dei telegiornali appena cominciati. Ebbene, su dieci titoli complessivi di Tg1 e Tg5 ben otto erano dedicati alle tematiche sopra indicate.

E localmente la situazione non è tanto migliore, pur se qualcuno ci prova ogni giorno a scuotere il sistema. Ma non basta, ogni santo giorno siamo travolti da valanghe di cazzate, di cose inutili, di finte tematiche che portano la massima parte della discussione su argomenti assai simili a quello che troviamo nei palinsesti televisivi ad ogni ora.

Fatti privati (e di alcun interesse) elevati a sistema ed a show. Ore intere del tempo di ciascuno di coloro che li guarda (e non sono pochi) trascorse per cercare di capire chi sull’isola dei famosi si è trombato chi…

No, vi prego, ditemi che sto sognando. Ho solo 43 anni e mi accorgo di parlare come un vecchio…ai miei tempi…

Sarà, ma io sono cresciuto – negli anni ’70-’80, mica nel settecento – con i Tg che erano una cosa seria, con le trasmissioni elettorali forse noiose e però maledettamente serie, espressione di una liturgia, quella del voto, che rappresentava qualcosa di sacro perché rappresentava, a sua volta, qualcosa di ancora più sacro, l’unità del Paese.

Sono cresciuto con Guccini e De Gregori, con gli ultimi splendori della carriera di Frank Sinatra e con De Niro.

Con Sordi e Mastroianni, ma anche con Troisi e Verdone, i miei giorni sono stati scanditi da uomini come Spadolini; certo, anche da Andreotti, ma né l’uno né l’altro si sarebbero mai sognati di dare del “coglione” all’elettorato antagonista. Sono cresciuto in un Paese che mai, nemmeno nei momenti più difficili, si è lasciato trasportare dall’isteria collettiva.

Certo, allora il “bavaglio” su alcune tematiche esisteva non per legge ma per prassi diffusa (anche se, sotto questo aspetto, gli anni ’70 hanno rappresentato il massimo della creatività), e però almeno il fronte, la linea dell’argine era unica, non ondivaga, come oggi.

E quindi, con queste premesse, nel Paese dei culi e dei Ministri che sfoggiano magliette contro altre culture giiustificandosi, poi, che trattavasi solo di un gioco (ma ve lo immaginate Cesare Merzagora con una maglietta di quel genere?), non possiamo più accettare inerti e silenti tutto quello che accade e che, soprattutto, non accade.

La nostra rassegna “Tabularasa” vedrà, dal 19 al 22 luglio esibirsi al Circolo del tennis di Reggio Calabria oltre 20 uomini che, a vario titolo, contribuiscono ogni giorno a regalare squarci di verità in un Paese che si chiude sempre di più e che, dopo il ’68 (devastante nelle conseguenze per la comoda esasperazione di alcuni concetti che hanno alimentato una deresponsabilizzazione generalizzata ma assolutamente irrinunciabile per alcune conquiste che i ventenni di oggi reputano scontate) credeva di avere messo in cassaforte alcuni princìpi, ma che si accorge, ogni giorno di più, che in cassaforte, ormai, ci stanno i prìncipi.

Senza peli sulla lingua, prendendo atto che gli spazi sui giornali per i giornalisti veri sono sempre di meno, queste persone con due palle quadre hanno scelto l’editoria (che solo in rarissimi casi porta soddisfazioni economiche), per parlare, denunciare, in qualche caso urlare, giovandosi anche di editori esemplari e coraggiosi, come, ad esempio, Chiarelettere di Lorenzo Fazio.

E così a Reggio saranno di scena Gherardo Colombo e Rosario Priore, Sandro Provvisionato e Attilio Bolzoni, Umberto Ambrosoli e Nicola Biondo, Ferdinando Imposimato e Piergiorgio Morosini, Giovanni Fasanella e Marco Lillo, Giuseppe Salvaggiulo ed Antonio Massari, Umberto Ambrosoli e Letizia Battaglia, ciascuno per raccontare un pezzo di storia del Paese irraccontabile e, quella si, da censurare, ma nell’essenza del cavallo, non certo nella sua rappresentazione, come mia figlia ben sa. Ci sarà anche Massimo Ciancimino, perché l’esigenza di verità viene prima di ogni altra cosa.

Tutto questo in Calabria, per volontà di una semplice associazione, per fare vedere (e le 1500 adesioni raccolte prima che il signor Facebook facesse scattare la mannaia della censura perché la foto poteva turbare qualcuno e continuando, invece, a lasciare attivi decine di profili e gruppi che incitano all’odio razziale, ad uccidere i bimbi down, alla violenza sulle donne, all’antisemitismo, etc.) quale sia l’altra faccia di Reggio, quella che in tanti accusano i media di voler deliberatamente oscurare.

Ed allora, come media (e lasciatemelo dire in uno slancio di autoreferenzialismo, che viva sempre strill.it), come parte di quello straordinario mondo dell’associazionismo reggino, come operatori culturali, come appassionati della verità e della storia, come semplici cittadini, lo facciamo noi.

“A Reggio Calabria tutto ciò?” ha strabuzzato più di qualche ospite o autorevole rappresentante dei media nazionali leggendo il programma.

Sissignore, a Reggio Calabria, per volontà ed impegno di due persone (la strana coppia Branca-Mortelliti) e di un manipolo di ragazzi impagabili e che hanno la scritta strill.it a caratteri di fuoco dentro l’anima.

Ma, soprattutto, perché sono tanti, tantissimi i reggini, i calabresi (e, probabilmente, gli italiani in genere) che chiedono questo tipo di iniziative, ma non hanno voce, perfettamente rappresentati dalla foto dello scandalo.

Ed allora la voce la diamo noi, con la manifestazione (alla quale ha aderito in modo entusiasta e convinto il Circolo del tennis di Reggio, immediatamente disponibile a rendere per 4 giorni meno leggero il programma dei suoi appuntamenti estivi) ed attraverso Strill.it che raggiunge ogni giorno 30.000 utenti.

Lungo la strada stiamo imbarcando, entusiasti, tanti altri rappresentanti di quello spontaneismo etico-culturale che sul territorio sono assai più antichi e meritori di noi ed anche alcuni dei più convinti difensori di quel baluardo concettuale che dovrebbe essere la stampa vecchia maniera; insomma sta nascendo qualcosa di importante che andrà ben al di là della kermesse di luglio, solo primo passo per una stabilizzazione ed una “calabresizzazione” dell’idea, del progetto.

E se qualcuno pensa che tutto questo possa essere in qualche modo condizionato dalla valutazione di una foto, più o meno “sgarbata”, allora, ancora una volta, ha preferito, come ha scritto Raffaele Mortelliti, mandare in mille pezzi contro il muro il termometro piuttosto che chiedersi quali siano le motivazioni, i pericoli ed i possibili rimedi per una febbre che sale ogni giorno di più al punto da far credere al malato che lo stato delle cose sia normale e che tutti gli uomini del mondo vi convivano…

lunedì 24 maggio 2010

Che anni, quegli anni


E' con grandissimo orgoglio che segnalo l'uscita del libro "Che anni quegli anni", la storia completa della Viola basket, l'epopea della squadra che rimise assieme una città.
Il mio orgoglio - probabilmente piccino ma mi sia concessa questa debolezza - crea una retta che, come tutte, passa da due soli punti: la soddisfazione per aver messo su carta le mie emozioni di bimbo, ragazzo ed uomo, coagulatesi attorno alle casacche neroarancio (e che so per certo coincidere con quelle di tanti) e quella relativa alla mia prima pubblicazione con la neonata casa editrice "urbabooks", un altro prodotto della "grande famiglia urba/strill.it".
Il volume lo si trova, a Reggio Calabria, presso l'edicola Cogliandro di piazza Castello e, in buona sostanza, la sua sintesi è rimessa a questo slogan: "A chi c'era perchè non dimentichi, a chi non c'era perchè sappia".
A questo link la scheda completa del volume

giovedì 29 aprile 2010

Se la sfida dello Stato diventa sfida allo Stato

da www.strill.it - Reggio, da almeno 40 anni, è abituata a convivere con la ‘ndrangheta e con la paura. Paura della ‘ndrangheta, certo, ma anche – per quanto paradossale possa apparire – paura di apparire, agli occhi del Paese (anche a causa di facili

generalizzazioni) come città di ‘ndrangheta nella sua anima, catalizzando su di sé le caratteristiche del boia e dell’assassino.
Le vicende relative all’arresto di Tegano vanno lette con lucidità ed estrema attenzione, facendo uno sforzo di serietà di analisi e rigorosità di metodo.
Partiamo dal dato più evidente: la “caciara” di parenti ed amici del boss fuori dalla Questura. Qui, in fretta, si è smarrito il senso del discorso: nel mirino non ci va – almeno direttamente - la città, rispetto alla quale, dopo le parole, di pancia, del Questore Casabona ha provveduto il Procuratore Pignatone a rimettere le cose a posto dichiarando che “è fatta per lo più da gente per bene”.
Nel mirino ci finisce e ci deve finire una parte minima della città per ciò che ha dimostrato essere capace di fare ma anche – indirettamente - l’intera città, dormiente e silenziosa nella sua parte migliore per decenni, per ciò che ha fatto involontariamente comprendere a questa gente rispetto a ciò che potesse fare (tutto) o non potesse fare (praticamente nulla).
Quella parte di Reggio che “se ne fotte dello Stato”, per dirla con Attilio Bolzoni, su Repubblica, lo ha sbandierato per oltre un’ora davanti alla Questura, con parenti, amici, donne e bambini in braccio in una sorta di muso a muso, occhi negli occhi con la Polizia. Un pesantissimo minuetto gestuale fatto di sguardi, di atteggiamenti, qualche volta anche di parole e minacce, assai più grave di qualche applauso familistico all’uscita del boss. Un’arroganza dichiarata e sbandierata al mondo intero davanti alle telecamere che assume la valenza di una vera e propria dichiarazione di guerra. Ancora stamattina altissimi funzionari e dirigenti della Questura erano basiti di fronte alla sfrontatezza di questi atteggiamenti tenuti non nel quartiere periferico, ma attorno alla Questura, come accadeva solo ad Africo decenni addietro.
E poi ci sono i ragazzi delle volanti, quelli che alla fine, a telecamere spente, vanno nei territori nemici. Quelli non parlano mai, ma sono turbati da quanto accaduto davanti alla loro casa, alla presenza di autorità e centinaia di poliziotti. Da oggi tocca a loro tornare ad Archi, nella notte, a bordo delle volanti.
La città non era quella davanti alla Questura ieri, certo, si trattava di una parte minima ma non insignificante, dato che, comunque, parliamo dell’ambiente vicino a Giovanni Tegano. Un ambiente che con tutti gli effettivi ha dimostrato allo Stato che, pur toccato pesantemente con arresti e sequestri di beni a raffica, non indietreggia di un millimetro, anzi è lì, nella tana del lupo, con gli occhi della tigre a fissare il nemico.
Abbiamo visto poliziotti, molti dei quali in servizio chissà da quante ore, abbassare lo sguardo per non incrociare quello di chi stava dall’altra parte, ne abbiamo visti altri essere in forte imbarazzo nell’allontanare chi aveva attraversato la strada ed era vicinissimo al punto dove sarebbero passati gli arrestati. Tutto questo davanti al massimo presidio provinciale dell’Ordine pubblico. Tutto questo non è bello, tutto questo schiude le porte, come ogni manifestazione di forza, anche a forti sospetti di debolezza ormai incontrollabile negli effetti da parte di un potere criminale al quale, insieme agli affetti, viene giorno dopo giorno portata via la cosa alla quale tiene di più: la roba.
E però resta la gravità inaudita di quanto accaduto ieri, se è vero, come è vero che il crimine e la lotta al crimine si nutrono entrambi di una forte simbologia. Forte simbologia da parte dei fans di Tegano che, poteva essere tranquillamente stoppata prima.
L’uscita, comprensibile nello spirito ed esagerata nei modi quanto devastante sul piano delle conseguenze d’immagine per la città da parte del Questore (alla quale ha immediatamente messo una pezza Pignatone) è stata dettata probabilmente dalla rabbia nel vedere i suoi uomini impotenti ( a quel punto per ragioni di opportunità e buon senso) di fronte alle provocazioni, ma – diciamolo francamente – l’intera situazione poteva essere gestita meglio.
Vista la caratura del personaggio ed anche il fatto che fin dalla tarda serata precedente decine di personaggi stazionavano davanti alla Questura sarebbe stato opportuno isolare l’intera zona non consentendo a nessuno di accedere all’intero isolato della Questura. Se si pensa che per il Consiglio dei Ministri è stata creata un’area rossa circa dieci volte più grande per mezza giornata il paragone non regge.
L’analisi lucida, infine, non può non soffermarsi sulla frase urlata da una donna (probabilmente la cognata): “Avete arrestato un uomo di pace”.
Cosa vuol dire? Si è trattato di una frase alla quale non attribuire particolari significati, da collocare in un contesto di grandissimo turbamento emotivo generale oppure c’è dell’altro, del vero dietro?
L’ultimo dei grandi boss latitanti poteva, in qualche modo, essere garante di equilibri frantumati dallo sbriciolamento assoluto degli assetti di decine di cosche sul territorio provinciale? E, quindi, cosa bisogna attendersi ora?
In quattro parole chi comanda a Reggio?

martedì 23 febbraio 2010

Asini, zebre e passeggiatori

Ma che tristezza!
Le nostre giornate, il nostro tempo a disposizione nella clessidra dell'esistenza, scivola via sempre più unto da schifezze etico-morali di ogni genere.
Negli ultimi giorni mi è toccato sentire esponenti della politica calabrese che si tirano addosso manciate di fango richiamandosi - udite udite - ad una sorta di disfida culturale rispetto alla quale non posseggono nemmeno la patente per poter parteciparvi da spettatori, figurarsi da protagonisti.
Trovo che per interloquire di certe cose, per occupare alcune posizioni di evidenza (e delicatezza) pubblica un bel pò di sano snobismo culturale non ci farebbe male, anzi.
Io - per parte mia - ho già deciso di adottarlo: di certi argomenti, mi dispiace, non sono disponibile ad interloquire con chiunque. Chiedo quale requisito minimo che la controparte abbia la mia medesima percezione dei baluardi etico-morali e che le conoscenze storiche, sociali, normative, etc. di chi mi sta di fronte siano almeno pari alle mie (e vi assicuro che non sarebbe particolarmente difficile).
Certo, tanti, troppi miei coetanei o giù di lì, mentre il sottoscritto da ragazzo si impegnava in un banale, normalissimo ciclo di studi prima e di esperienze lavorative dopo, si dibattevano nell'eterno dilemma tra il passeggiare al mattino, sì da essere liberi al pomeriggio o viceversa.
Oggi molti di loro occupano posizioni di un certo prestigio sociale (ma non è questo che mi interessa, buon per loro e male per chi li accredita) ma, soprattutto, posti di responsabilità, dove è (anzi sarebbe) richiesta conoscenza diffusa, metodo acquisito, capacità di confronto e - vivaddio - un livello culturale minimo.
Il guaio è che in una cittadina come Reggio Calabria ci si conosce tutti e - all'interno della medesima fascia generazionale - ciascuno conosce il percorso di uomo e formativo dell'altro.
E questo, come detto, è un guaio, perchè ti consente di distinguere gli asini dalle zebre.
Tempo fa allo zoo di Gaza morirono le uniche due zebre ed i responsabili della struttura, per evitare che i bimbi in visita ci restassero male, idearono di dipingere a strisce bianche e nere due asinelli. La trovata fu geniale e riuscì anche, visto che, a distanza, nessun bimbo si accorse dello stratagemma messo in atto.
Il guaio, però, è in agguato e consiste nella matematica certezza che, a lungo andare, gli asini si convincano veramente di essere delle zebre.
E dalle nostre parti, anche la vernice comincia a scarseggiare...

venerdì 5 febbraio 2010

Lettera ad Antonino


Caro Antonino,

stanotte sei stato vittima di una tipica vigliaccata mafiosa. Ti hanno incendiato l'auto, i canoni dell'avvertimento sono stati rigorosamente rispettati.

Hai scelto, da tempo, di vivere fino in fondo la professione, a Reggio, nell'unico modo che conosci e - ti dico con orgoglio - hai preso alla lettera, ma migliorandone i canoni di applicazione, i primi rudimenti che personalmente ed attraverso Strill.it (tua prima "casa" che, in quanto tale, resta e resterà sempre tua) ti offrii ormai 4 anni fa.

Chi ci legge deve sapere che le più feroci discussioni su tematiche inerenti la nostra professione le abbiamo fatte tu ed io. Così distanti, così vicini nei nostri modi di essere, di pensare.

Lo sfregio fatto a te, stanotte, è fatto a tutti noi di Strill.it, ma è fatto a tutta la comunità per bene di questa città.

Ora, caro Antonino, su quanti siano - effettivamente - i reggini per bene mi interrogo silenziosamente da tempo, ma tu sei certamente non solo uno di questi, ma anche uno dei pochi che si batte per l'affermazione piena di uno status che, altrimenti, rischia di restare solo una sommessa dichiarazione di principio.

Molte cose di te le ammiro, altre te le rimprovero, qualcuna te la invidio.

Tra queste ultime ci sono certamente la capacità straordinaria di affondare, concettualmente prima e per iscritto poi, il coltello nella piaga, di isolare il bubbone con precisione chirurgica e di portarlo a galla vestito anche di una godibilissima ironia.

Potrei dirti e ti dico un banale "Non mollare", caro Antonino; come persone, nei nostri singoli blog e - assieme al nostro manipolo di giovani amici e colleghi con "due palle così" - su Strill.it, siamo uniti da in invisibile filo. Lo sai, molte cose le vediamo nel medesimo modo se si parla di obiettivi di fondo, spesso in maniera diametralmente opposta rispetto alle modalità del loro perseguimento.

Non pensare che siamo diversi in maniera inconciliabile; è solo una questione di età: 18 anni di differenza, alle nostre età, si sentono, ma va bene così, credimi.

Vorrei anche dirti pubblicamente: non sentirti solo e non isolarti. Vai, vieni, torna, riparti, stai a Reggio, a Roma, a Milano, a Palermo, dove ti pare, ma ricorda sempre, come uno dei migliori figli, che la tua casa, il tuo rifugio sicuro, il posto dove litigare ferocemente con "papà, mamma, fratelli e sorelle" è Strill.it, vera sacca di libertà espressiva reale che la città abbia espresso e che tu hai contribuito a far crescere fin dalla prima ora.

Con stima pari all'affetto ti abbraccio caramente.

Il tuo direttore

venerdì 15 gennaio 2010

Chi vive (e chi muore) in calabria. Ma il cielo non è più sempre più blu

da www. strill.it - “Chi vive in Calabria” era solo una strofa di quel capolavoro scritto 30 anni fa da Rino Gaetano.
Già, chi vive in Calabria. Viverci in Calabria, viverci e spesso anche morirci. Qualche volta fisicamente, spesso dentro. Questa è la Calabria del terzo millennio.
Nel secondo dopoguerra, come ad inizio del novecento e a fine ottocento la Calabria era una terra povera; povera di risorse, povera di prospettive, figlia diretta dei baronati, del latifondo e di una società che arricchiva pochi ricchi ed affamava tanti poveri, ma con una sua identità.
Il brigantaggio, per carità, esisteva già eppure, soprattutto negli anni ’50 e ’60, la Calabria aveva un proprio profilo che si alimentava di speranze di cambiamento.
Oggi, nel secondo decennio del terzo millennio, tutto pare perduto. Gli eserciti delle persone normali, semplici, per bene, sono sconfitti. Sconfitti negli ideali di vivere in una società normale a sua volta, con una sacca di malaffare congenita e da combattere, certo, ma pur sempre sacca.
Chi è cresciuto negli anni ’80-90 sa bene che la Calabria e Reggio in particolare hanno accettato in quegli anni in via inconsciamente definitiva il destino di chi la partita l’ha persa e prova solo a limitare il passivo. La pervasività della ‘ndrangheta è attorno a noi da sempre, ha il volto di quei compagni di scuola che abbiamo frequentato – e a modo nostro, per come si può farlo, con tutta l’anima da ragazzi amato – e che oggi si sono rivelati altra cosa da ciò che siamo noi, diversissimi da ciò che avremmo voluto fossero.
Noi abbiamo sempre avuto il coraggio di resistere (per chi non è stato costretto ad andare via), di accettare giorno dopo giorno soprusi, privazioni di legittime aspirazioni, castrazioni di opportunità, ma non quello di dare – tutti insieme – una svolta alla mentalità, al modo di pensare, all’acqua dove sguazzano i pesci della criminalità, che, prima di essere organizzata, è sociale, quasi antropologica.
In tanti, tantissimi che ogni giorno sbarcano il lunario con onestà – intellettuale e di comportamenti, a costo di sacrifici grossi – si sentiranno offesi da questa affermazione, ma la storia lo ha dimostrato e lo ribadisce ogni giorno: la rassegnazione quotidiana rispetto a qualunque nefandezza che aggredisca la polis fa il paio solo con l’individualità tipica delle popolazioni arabe dalle quali abbiamo ereditato l’indifferenza, quasi atarassia, rispetto alle cose più terribili che possano accaderci.
Abbiamo la sensazione, qualunque cosa accada, che – comunque – avrebbe potuto andarci peggio e mai, nemmeno per una volta, pensiamo a quanto meglio avremmo diritto a pretendere, invece, che le cose girino.
La ‘ndrangheta, nei decenni, col nostro spaventato eppure involontariamente complice silenzio, si è mangiata tutto. Si è mangiata serenità, soldi, ordine pubblico, sviluppo economico, corretto funzionamento della Pubblica Amministrazione, crescita sociale, percezione delle tematiche più delicate e, soprattutto, capacità di indignazione.
A forza di efferatezze ogni cosa ci pare normale. Ci pare assolutamente normale che ogni santa notte siano tre, quattro o cinque le bombe o gli incendi che solo nella città di Reggio caratterizzano lo scandire delle ore; ci pare assolutamente normale che le dinamiche elettorali siano spessissimo caratterizzate da voto di scambio; ci pare assolutamente normale che l’iniziativa economica, la libera impresa, sulla quale si fonda ogni stato liberale, ogni economia di libero scambio, sia non condizionata, ma totalmente comandata, in ogni suo respiro, dai voleri delle cosche e – ormai da due paia di decenni - dai loro referenti diretti che siedono nelle stanze dei bottoni.
Da troppo tempo la storia di questa città è stata scritta in pochi salotti da una ristretta oligarchia di potenti, di quella classe dirigente che, senza esclusione alcuna, si è fatta portavoce di interessi inconfessabili e di scopi turpi in nome di qualche dollaro in più.
Gente che per decenni si è venduta anima e territorio al diavolo senza comprendere – ma la presunzione e l’ignoranza rendono più ciechi di una benda – che il timone che si illudevano di tenere in pugno era ben saldo nelle mani proprio di quel diavolo che un bel giorno avrebbe fatto di loro, proprio di quei signori che gli avevano consentito - per interposta persona - l’accesso nei salotti, solo dei burattini.
E’ troppo tardi ora, dopo una “semplice” bomba dimostrativa davanti ad un portone chiedersi cosa ci facciano tutti questi mercanti nel tempio; sarebbe più facile, invece, chiedersi a chi appartenga il tempio, potremmo amaramente scoprire che i mercanti sono solo a casa loro e gli abusivi siamo noi, certamente i più numerosi, ma spesso i più silenziosi, i più inermi e non per questo esenti da colpe di fondo per avere consentito l’assedio del tempio quando, forse, ancora si poteva intervenire.
Certo, nessuno può chiedere alle persone normali di diventare eroi; uno Stato civile non deve mettersi in queste condizioni, ma – vivaddio – il peso dell’indignazione, del pubblico ludibrio, del disprezzo collettivo, quello dovrebbe ancora essere pressocchè obbligatorio e diffuso.
E non si creda che non servirebbe a nulla: anche in questo caso la storia ci ha insegnato che le cosche sono ben attente a non suscitare indignazione popolare; la criminalità ha sempre cercato, con comportamenti dei propri esponenti più portati – diciamo così – per le pubbliche relazioni, di farsi fare l’occhiolino dalla gente. Il percorso delle cosche cittadine più in vista degli ultimi decenni lo dice chiaramente: alla massa, tutto sommato, così antipatici certi personaggi non stanno.
Scomode queste verità? Può darsi, al pari del fatto che – ovviamente – pur essendo diffuse non possono considerarsi assolute. Però Reggio era riuscita a fare il callo anche ad una guerra durata sei anni (più del secondo conflitto mondiale) e che portò per le vie del capoluogo quasi mille morti. Per le strade, nei bar, ai semafori, con fucili, bazooka, autobomba. Erano gli anni 1985-1991, non un secolo fa. Eppure la città, ancora una volta, si chiuse in un lugubre silenzio, subendo i colpi, respirando a pieni polmoni l’aria della barbarie imposta da chi, entrando dal salotto, si era già preso il tempio.
E però perché le masse in qualche modo reagiscano, da sempre serve qualcuno o qualcosa che le trascini, che le stimoli e, ad onor del vero, per decenni la magistratura, le Forze dell’Ordine di questa città non hanno brillato per prontezza di riflessi e risultati operativi. Bisognerà attendere il 1991, con l’operazione “Santabarbara”, il 1993 con “Tirreno” e poi il 1995 con “Olimpia” ed il 1996 con “Valanidi” perché qualcosa si muova, fino ad arrivare agli ultimi anni in cui l’aria nei confronti dei mercanti che si sono presi il tempio è radicalmente mutata. Ora lo scontro, frontale, pare vicino. Non più la partita a scacchi (in qualche caso anche truccata) del passato, ma un face-to-face che potrebbe anche essere cruento.
D’altra parte mai nessuno sbarco dei liberatori in territori occupati è stato caratterizzato da rose e fiori né è stato totalmente scevro dalle operazioni di sabotaggio di qualcuno avvezzo al doppio gioco. La gente, a sua volta, prima di esporsi, ha bisogno di capire realmente che stavolta si può vincere; esporsi anche stavolta e perdere ancora potrebbe, poi, costare carissimo.
Eppure arriva un momento in cui tutti, anche coloro ai quali non si può chiedere di essere eroi, qualcosa devono rischiare nello schierarsi, anche solo per fare il tifo.
Quel momento coincide esattamente con la piena percezione del rischio che – poco per volta – i mercanti si siano presi tutto, anche i pensieri, i sogni e le speranze.
Quel momento arriva quando, per chi vive (e muore) in Calabria, anche la semplice quotidianità non è più la stessa, anche i gesti più banali e pregnati di dignità umana diventano difficili.
Quel momento arriva quando ti accorgi all’improvviso che non è vero che, qualunque cosa accada si va avanti come prima purchè non ti tocchi direttamente, non è vero che qualunque cosa accada il cielo è sempre più blu.
E quando arriva quel giorno è tempo di pensare a fare la strada per chi verrà dopo di noi, ammesso che avrà scelto, con azzardo e come cantava Rino Gaetano, di vivere in Calabria.