lunedì 30 luglio 2007

Si può essere un pò incinta???


Mi chiedo sempre più spesso dove viviamo.

Cioè, chiariamo un punto: certezze non ne ho, ma alcune riflessioni mi sbattono negli spigoli del cervello.

Per l'ennesima volta un database di un giornalista - nella fattispecie la collega Chiara Spagnuolo del "Quotidiano"- è stato fatto oggetto di sequestro, due case addirittura perquisite.

Pietra dello scandalo la pubblicazione di una perizia d'indagine relativa al procedimento "Why not", quella, per intenderci, dove sono apparsi anche numeri telefonici di utenze eccellenti.

Ma la cosa che veramente mi fa pensare riguarda il metodo; cioè, mi chiedo, perchè deve essere perseguito il giornalista per violazione del segreto d'ufficio?

Ma - santo Dio- sono completamente rincretinito (cosa da non escludere, si badi bene) oppure nel momento in cui la notizia o l'atto coperti da segreto giungono al giornalista il segreto è già stato violato???

E, di più, è mai possibile che debba essere tenuto al rispetto del segreto colui il quale non ha obblighi nei confronti della Pubblica Amministrazione, ma, invece, ha obblighi precisi nei confronti dell'editore che lo paga e, sapete che vi dico, anche obbighi deontologici rispetto alla professione???

Insomma, se io ho una notizia, un documento, in un Paese normale devo essere obbligato soltanto ad una cosa: verificare la veridicità del contenuto.

Il problema, per lo Stato, invece nasce - o dovrebbe nascere- dalla verifica di chi quel documento ha fatto circolare.

Perchè il segreto è violato non appena anche una sola persona non titolata ne viene a conoscenza. A nulla rileva che poi questa violazione venga portata a conoscenza di un numero indefinito di lettori.

Il segreto o è tutelato o è violato, non esistono vie di mezzo, ma tra un pò in Italia qualcuna si definirà "un poco incinta".

D'altra parte quasi mezzo secolo fa un famoso "notabile" siciliano veniva definito, in un rapporto dell'Arma, "un pò mafioso"

mercoledì 25 luglio 2007

Conoscere per riconoscere


Non c'è nulla da fare, bisogna studiare!

In ogni campo, in ogni settore è necessario studiare.

E quando vi sono di mezzo fenomeni umani diventa imprescindibile studiare (ma bene bene) ed anche comprendere, interpretare, la storia.

L'invito del coordinatore della DDA reggina, Boemi, a rileggere, tutti assieme, gli scenari che nel 1985 portarono alla seconda guerra di mafia reggina ed a quelli che, sei anni più tardi, misero fine all'esistenza terrena del Giudice Scopelliti può apparire scontato, forse banale, ma a qualcuno tra i più attenti suonerà inutile.

Questo accade perchè viviamo in un Paese che, dal dopoguerra in poi, vive su equilibri delicatissimi gestiti da compromessi inaccettabili, da patti indicibili e che, nei decenni, "sunt servanda". Nonostante i tempi, a dispetto dei muri che cadono, dei protagonisti che muoiono.

Viviamo in un Paese che ha operato - ed opera ancora- una continua rimozione della memoria storica, ma ciò non avviene per semplice ignoranza o superficialità.

No, no, attenzione. Questo genera nelle masse ignoranza e superficialità, ma avviene per un calcolo ben preciso di chi gestisce le leve del vapore.

La gente non deve sapere, non deve porsi domande.

La gente va distratta, stordita.

E così, magari, nessuno si chiederà più quali prezzi, ancora oggi, stiamo pagando per avere chiesto - ed ottenuto- nell'immediato dopoguerra alla mafia, agli Usa, al Vaticano di liberarci da quel Satana con la falce ed il martello che tutte le volte in cui ha provato a riproporsi è stato ricacciato indietro con strumenti che definire discutibili somiglia più ad una gigantesca bugia che ad un garbato eufemismo.

Ma il meccanismo, collaudatissimo, è sempre quello e, come dice Marco Travaglio nella prefazione a "L'agenda rossa di Paolo Borsellino", se qualcuno avesse deciso di fare appassionare questo Paese un pò più a questa vicenda ed un pò meno al delitto di Cogne, probabilmente oggi sapremmo qualcosa in meno sul pigiama della Franzoni e qualcosa in più sulla storia della nostra seconda Repubblica.

Bisogna studiare, riflettere, mettere a posto i tasselli di un puzzle, proprio come fanno i Ris in tv. Già, in tv, così mettiamo a posto quelli e non ci concentriamo su altri, più drammaticamente reali.

Perchè qualcosa di nuovo c'è rispetto al passato: chi ne abbia veramente voglia ha tutti gli strumenti - cartacei ed on line- per capire, per far venire fuori mille dubbi e talora mille conclusioni. Per capire, ad esempio, quante e quali vergogne di Stato sotto forma di stragi, di inciuci incredibili tra servizi segreti, politica, massoneria, alta finanza, magistratura, Vaticano, mafia, 'ndrangheta, alti ufficiali dell'Arma si siano consumate in pochi decenni e si consumino ancora.

Secondo voi è un caso che un programma come "La storia siamo noi" di Minoli sia confinato in terza serata o la mattina all'alba?

No, non è un caso e gli esempi sono mille e mille.

Qualcuno tempo fa avanzò un'ipotesi: prevedere normativamente una moratoria, uno scambio tra impunità di alcuni delitti - ad esempio quelli di terrorismo o delle stragi- e verità.

Come dite? Meglio non sapere? Può darsi, ma quando poi, per altre vie, la verità ti cade addosso, sia pure a pezzi, sia pure con le sembianze sfuggenti e subdole del dubbio, è molto, molto peggio...

E magari qualcuno leggendo queste righe starà pensando "ma chi te lo fa fare...???".

Certo, può darsi che sia più appassionante interessarsi alla telenovela dell'affare Roma-Inter per Chivu o chiedersi se Sircana andava a trans o no (ma saranno cazzi - in tutti i sensi- suoi???).
Attenzione, però: perchè, così come le nostre azioni ci seguono, la storia, la nostra storia, ci insegue e prima o poi ci raggiunge. E' meglio per tutti, una buona volta, fermarsi, farsi raggiungere, fare i conti con essa e ripartire, piuttosto che arrivare alla meta stremati e braccati.
Così, per poter conoscere la realtà, anche solo per poter provare a riconoscerla, da lì in poi.

sabato 21 luglio 2007

E ti ricordo ancora...


Potrebbe apparire un volere indulgere alla malinconia oppure a stereotipi triti e ritriti.

Beh, pensatela come volete, ma io sono tra quelli che ritiene che un sacrificio - a maggior ragione quando è l'estremo- ha un senso se almeno il ricordo lo fa vivere.

E con esso vive la persona che lo ha compiuto.

Per grandi linee è il medesimo discorso che valeva per il post su Ambrosoli. Ve lo ricordate?

Due giorni fa abbiamo ricordato commossi la figura di Paolo Borsellino, oggi ricorre il ventottesimo anniversario dall'assassinio di Boris Giuliano.

Già, chissà in quanti, oggi, ricordano che era il capo della Squadra Mobile di Palermo, ma - ampliando il discorso- chissà a quanti dicono qualcosa i cognomi di Basile, Montana, Cassarà, Antiochia, ma anche La Torre, Mattarella, Scaglione, Chinnici, Saetta e mille altri ancora.

I miti, quali - giustamente- sono diventati Falcone, Borsellino, Dalla Chiesa vivono, grazie a Dio nella memoria dei più e, se Dio vuole, anche nel cuore di qualcuno.

Per troppi altri che hanno dato la vita ma lontano dalla ribalta, come, ad esempio ulteriore, proprio le scorte di Falcone e Borsellino, resta solo il dolore vivo come lama nella carne di chi ne è rimasto orfano di affetti e di sorrisi, di abbracci e di carezze.

E questo non è bello.

Questo non è giusto.

Oggi, il 21 luglio del 1979, in una calda prima mattinata di Palermo, il poliziotto Boris Giuliano veniva ucciso al bar, dove sorseggiava il primo - ed ultimo- caffè della giornata.

Un pensiero è d'obbligo

lunedì 16 luglio 2007

Reggio ha ucciso l'amico più caro


Ogni pezzo di storia che se ne va prende a braccetto un pezzo di noi.

La Viola cancellata dai campionati professionistici dopo 41 anni di storia e 23 di serie A colpisce al cuore tutta la città.

La colpisce al cuore perchè la Viola è stata Reggio, per tanti, tanti anni.

La Viola è stata Reggio per tutti, anche per chi, dopo un quarto di secolo, ancora non ha capito i "passi" o i "tre secondi".

La Viola è stata Reggio quando Reggio nella mappa nazionale del vivere civile non c'era, quando attorno ai suoi destini il cuore della gente si fermava e palpitava al ritmo dei tiri liberi decisivi che morivano sul ferro o dei tiri da tre che sulla sirena ti mandavano in Paradiso.

La Viola è stata Reggio la domenica mattina alle 11 sulle mattonelle dello "Scatolone", nelle 5.000 persone stipate in un "Botteghelle" che ne poteva contenere 3.500 ed anche in un "Pentimele" che ne vedeva 10.000 a fronte di 8.500 posti.

La Viola è stata Reggio quando Reggio non stava a galla.

E la Viola è stata Reggio anche quando Reggio - invece- teneva a galla la Viola, come capitò nel 1998, in occasione del primo fallimento, con i comitati spontanei che "picchettavano" le stanze dei bottoni insieme a chi della Viola ha fatto una ragione di vita. Gente come Santoro e Gebbia, Tolotti ed Avenia.

Ma stavolta Reggio è stata matrigna e, da troppo tempo, ha lasciato sola la sua Viola, quella che così tanto aveva fatto per Reggio in ginocchio.

Non è tempo di distribuire colpe, il morto è ancora caldo, ma oggi l'anima della città, le sue espressioni più facoltose, ma anche la gente semplice, col suo disinteresse, ha ucciso un amico fraterno.

E' solo tempo di amarezza e di ricordi.

Se ne avete voglia, che ciascuno lasci qui il suo.

sabato 14 luglio 2007

Quel che resta di noi


Nel 1970 avevo appena 3 anni, però, ebbi la fortuna di abitare a Reggio in pieno centro, per cui il balcone di casa era, in realtà, una continua platea dalla quale vedere, ora dopo ora, ciò che mi appariva come un gioco: la rivolta.
Sono passati esattamente 37 anni dal giorno in cui ebbe inizio, eppure le sensazioni di quel gioco di allora le ricordo perfettamente e, nonostante, mi apparisse – appunto- un gioco, era un gioco strano, perché la tensione, la preoccupazione la percepivo.
Mi sembrava un gioco, ad esempio, vedere le macchine in fiamme lanciate sotto il mio balcone verso il Corso Garibaldi; non mi appariva più un gioco quando eravamo obbligati a serrare le finestre per il fumo dei lacrimogeni che rischiava di entrare in casa.
Mi sembrava un gioco – quando ad una certa ora la situazione si era tranquillizzata- andare di tanto in tanto con mio padre a curiosare, in automobile, in mezzo alle macerie delle barricate ed agli incalcolabili danni provocati da una giornata di battaglia; non era un gioco, però, quando fui orgoglioso di lui perché, di ritorno dal lavoro, portò a casa un candelotto lacrimogeno che avevano sparato i poliziotti durante una carica nella quale si era imbattuto nel tragitto dall’ufficio a casa.
Il candelotto, naturalmente, è ancora – 37 anni dopo- sul mobile di casa, anzi sulla mensola del salotto, per essere precisi.
Non so cosa sia rimasto di quegli anni, me lo chiedo spesso.
Certo, ricordo come eravamo.
E vedo come siamo.
Facciamo un gioco assieme: chi si ricorda come eravamo?

mercoledì 11 luglio 2007

Niente di personale...


"Qualunque cosa succeda, comunque, tu sai che cosa devi fare e sono certo che saprai fare benissimo. Dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto. Abbiano coscienza dei loro doveri verso se stessi, verso la famiglia nel senso trascendente che io ho, verso il paese, si chiami Italia o si chiami Europa".

E' la parte saliente ed agghiacciante della lettera che Giorgio Ambrosoli, avvocato, scrisse alla moglie quattro anni prima di essere ucciso, a colpi di pistola, 28 anni fa, l'11 luglio del 1979.

Sapeva a cosa andava incontro o, quanto meno, cosa rischiava.

Cosa sia rimasto di quell'omino che, da commissario liquidatore della Banca Privata, quella di Michele Sindona, si era messo in testa di fare saltare il banco, a distanza di quasi 6 lustri, è complicato da scoprire.

Come, invece, sia andato incontro al massacro, è ben chiaro.

A distanza di anni, quando - ormai- i segreti inconfessabili del Paese sono diventati segreti di Pulcinella, nel senso che tutti li conoscono, sempre più nei dettagli, ma nessuno può essere chiamato a renderne conto, viene sempre più la voglia di dar ragione alla vedova Moro quando, parlando dell'omicidio del marito, ad un intervistatore disse "Mi creda, è meglio metterci una pietra sopra e lasciare fare a Dio!"

E Dio (ma non solo) sa bene quale gioco gigantesco si sia messo in moto ed abbia stritolato Giorgio Ambrosoli, avvocato milanese.

In un colpo solo, seguendo - come anni dopo e prima di seguire lo stesso destino di Ambrosoli, sia pure saltando per aria, disse Giovanni Falcone- la via dei soldi, Ambrosoli era sul punto di tirare le fila del sottile ed indistruttibile filo rosso che legava la finanza italiana, alla politica, alla P2, alla mafia, al Vaticano.

Roba da fare strike con una palla sola!

Nemmeno nelle favole a lieto fine un piccolo omino, da solo, riesce a mettere in scacco un sistema intero.

Più volte era stato minacciato, ma lui - imperdonabile errore- era uno di quelli che al lieto fine ci credeva, anche se, come dimostrato dalla lettera alla moglie, più di un brivido lungo la schiena accompagnava le sue giornate.

Qualcuno crede che il sacrificio estremo degli uomini non sia vano se da questo discendono conseguenze positive, per reazione.

Se credete a questa ipotesi non deve far fatica, la vostra mente, a comprendere come - di converso- l'anima di Ambrosoli vaghi senza pace da qualche parte.

Perchè negli anni l'Italia degli intrallazzi e dei misteri, delle trasversalità e delle stragi di Stato, ha continuato ad attorcigliarsi su sè stessa, spostando ogni giorno più in là i paletti della decenza, della vergogna, dell'infamia.

No, egregio avvocato Ambrosoli, il suo estremo sacrificio non è servito proprio a niente.

Mi duole dirlo, ma credo che almeno ad un pò di franchezza la sua anima abbia diritto.

Non è servito, non solo perchè le cose non sono cambiate nemmeno un pò, ma anche perchè il Paese - tranne qualche rara eccezione- di quegli anni ricorda più facilmente il volto di Alessandro Scanziani, oscuro pedatore dell'Inter, che il suo.

Non me ne voglia, avvocato, se sono stato crudo.
Come le disse William J.Aricò mentre l'ammazzava sparandole addosso da pochi metri: "Niente di personale, è il nostro lavoro"

martedì 10 luglio 2007

Cultura e conoscenza


Io non so se il nuovo consulente del Comune di Reggio Calabria, Marcello Veneziani, darà - come auspicato dal Sindaco una svolta in postitivo alla qualità delle proposte dell'Amministrazione comunale. Personalmente ne sono convinto, ma la mia valutazione prognostica è annacquata dalla stima notevole che ho per il personaggio.

Ma la presentazione alla Città di Veneziani, in realtà, rappresenta solo lo spunto per alcune brevi riflessioni. Veneziani ha sottolineato più volte che non se ne può più di mostre per singole fasce, di inziative dedicate dichiaratamente a questa o quella categoria. Ma il fatto è che le città del Sud per troppo tempo sono rimaste isolate, lontanissime non solo dal resto del mondo, ma addirittura dall'Europa o dal Nord Italia. Questo ci ha portato ad esaltare - giustamente- ma anche a "viverci addosso" solo le nostre realtà, le nostre tradizioni culturali, i nostri passaggi storici più importanti.

Non è possibile, però, guardare oltre, volersi spingere, proporre al mondo intero se non si colma prima il gap di conoscenza generalizzato che ci caratterizza rispetto a quanto già da tempo accade lontano dallo Stretto.

Non è detto che sia meglio di ciò che succede alle nostre latitudini, ma è comunque una cosa in più, un'aggiunta, un modo diverso ed ulteriore di vedere le cose.

Un valore aggiunto, insomma.

Se la curiosità, la voglia di conoscere anche le più piccole banalità dei mille e mille modi di vivere al di là della punta del nostro naso, smette di alimentare le nostre anime anche solo per un attimo, come cantava Roberto Carlos, "la festa appena cominciata è già finita".

domenica 8 luglio 2007

Che anni quegli anni...


...di merda!

Sarebbe ora che - finalmente- qualcuno trovasse il coraggio di dirlo: i "mitici" anni '70, idolatrati come si conviene a tutto ciò che ci riporta ad una gioventù che non c'è più, furono anni di merda!

Sono passati esattamente trent'anni dal 1977, probabilmente la boa spartiacque, l'apice di un'Italia che non si ritrovava più in nessun modo.

Trent'anni dall'omicidio di Giorgiana Masi, dalle decine di morti nelle piazze, dalle gambizzazioni.

Ma - paradossalmente- il tempo che passa non assegna la giusta cornice agli eventi, ma quasi li ammanta di quel "mitico" che, francamente, è non solo abusato ma addirittura usurpato.

Era un Paese in ginocchio, per oltre due lustri fu un'Italia che faceva fatica a guardarsi dentro, a capire cosa fosse impazzito nella propria anima.

Era un'Italia che non comprendeva - e non comprese- perchè mai l'unico sistema per provare a proporre le istanze di "svecchiamento" dello Stato dovesse essere, in realtà, il solo che inevitabilmente ne avrebbe rafforzato i sistemi più conservatori.

Furono anni in cui ciascuna entità in gioco riuscì a ritagliarsi spazi che regalarono agli attori l'illusione di guadagnare terreno, senza accorgersi, però, di stare perdendo la battaglia più importante: quella contro il tempo.

Quel tempo che in fretta fece diventare il tutto anacronistico; quel tempo che logorò anche i più convinti assertori della lotta armata.

La notte della Repubblica, come la chiamò stupendamente il maestro Zavoli, era cominciata, in verità, da tempo, ma quel 1977 il buio fu pesto e l'anno successivo -quello del sequestro Moro- fu solo quello dei "botti" più evidenti.

Ma la gente, quella alla quale più di qualcuno dovrebbe spiegare cosa avessero di "mitico" quegli anni, visse per anni nel buio di quella notte. Un buio che metteva a rischio non solo il quotidiano, ma che teneva sotto una fitta cappa anche e soprattutto il futuro.

Che l'Italia - in definitiva- sia stata sotto guerra civile, sottile quanto reale, per oltre 40 anni è un dato di fatto.

Ma che in quegli anni '70 qualcosa sia cambiato è innegabile.

Eppure in mezzo al piombo ed al buio, anzi dietro di questi ci furono anche tanti fermenti spontanei, culturali, soffocati dai modi ed anche dalle strumentalizzazioni di qualcuno.

Sono passati trent'anni da quando l'Italia, quella che alle 6 del pomeriggio si chiudeva dentro casa, quella delle fabbriche sotto picchettaggio e del "colpirne uno per educarne cento", provava a ritagliarsi un mondo parallelo tuffandosi nella "Febbre del sabato sera" di John Travolta.

Sono passati trent'anni da "Stay'n alive" e "More than a woman".

Ecco, se dopo tre decenni devo sforzarmi di individuare un aspetto che possa regalare una qualche nostalgia che poggi la nobiltà del suo sentimento su qualcosa di diverso dalla triste idolatria fine a sè stessa per la propria icona giovanile, se qualcosa - non l'unica, per carità, ma di sicuro quella più identificativa- deve assumere le sembianze di un'immagine, niente incarna il paradosso di quegli anni più di John Travolta e della sua giacca bianca, fatta roteare sopra il capo.

Ma ancora più grave di avere scritto la storia di quegli anni sarebbe averli archiviati, consegnati alla storia, appunto, senza averli metabolizzati, averli solo "spostati" in quanto scomodi senza che siano stati analizzati con lo spirito sereno e serio che si confà ad un Paese che sa esattamente cosa muove chi e, soprattutto, viceversa.

Ma l'Italia, di questo fantomatico Paese, non ha proprio nulla, anche perchè per riconoscere è necessario conoscere. Ed il Bel Paese - è noto- del proprio passato, prossimo e remoto, non sa quasi nulla...

sabato 7 luglio 2007

Com'è misera la vita negli abusi di potere...(Franco Battiato)

Provavo a riflettere tempo fa (da piccolo ho contratto questa sorta di malattia, per cui ci provo spesso, anche se talora con esiti imbarazzanti...) circa il futuro dell'Europa.
Mi spiego meglio: pensavo a che futuro avremo noi, i nostri figli, i figli dell'Europa. Non era il dato politico che mi interassava, quanto, piuttosto, le prospettive in più che potranno essere cavalcate.
Rispetto a quando, negli anni '70, la mia insegnante di lettere della scuola media ci spiegava cos'era (e cosa avrebbe voluto diventare) l'Europa dei 9 (!!!) di acqua sotto i ponti ne è passata tanta.
L'Europa, pur tra mille difficoltà e vagonate di critiche, spesso strumentali, sta nascendo.
Ma resta da capire quale sarà il ruolo che le singole Nazioni, meglio ancora le singole porzioni di territorio di ogni Stato riusciranno a ritagliarsi.
Insomma, ho il terrore - che spesso veste i panni della certezza- che il Sud, la Calabria, per entrare in Europa dovranno per sempre continuare a prendere un aereo.
La storia infinita dei "corridoi" temo che ci penalizzerà nei secoli dei secoli, per miopia di una classe politica vecchia, che non ha compreso su quali nuovi tavoli si stesse muovendo il futuro e, soprattutto, ha fatto fatica a capire che le meschine logiche da bassa macelleria presto non sarebbero state funzionali nemmeno a gestire quella piccola fetta di potere che - nelle logiche di un domani che è già qui- sarebbe stata insignificante.
Logiche di gestione che, però, porteranno i nostri figli molto più lontani dai centri decisionali di quanto, ad esempio, non lo saranno i Rumeni.
Logiche di gestione di una classe politica che si è venduta il futuro, i sogni, per una manciata di fave, al punto da ritrovarsi come i cani dei bucceri: sporchi di sangue e morti di fame...

giovedì 5 luglio 2007

E naufragar m'è dolce in questo mare...


...di consulenze...

Girarci intorno non serve a nulla, anzi ci allontana, giro dopo giro, dal nocciolo del problema: la gestione moderna e dinamica della macchina amministrativa - a maggior ragione di un Ente locale- non può prescindere da un consistente impiego di risorse a carattere fiduciario.

Siano essi i famigerati consulenti o, più semplicemente - appunto- fiduciari poco cambia.

Troppo veloce l'attività e troppo voluminosa la mole di istanze cui quotidianamente un Ente deve rapportarsi per poterne venire a capo, come accadeva decenni addietro, con le sole risorse in organico.

E così, velocemente ed in maniera disordinata come solo l'Italia ed il Sud Italia in particolare sanno fare, è venuta fuori una figura che - che novità, vero?- ha occupato un consistente vuoto normativo. Anzi, per meglio dire, si è infilata attraverso una previsione normativa che ne introduceva la figura, ma che - poi- non la normava, se non attraverso poche, generali e spesso vuote prescrizioni.

Lo spunto fornito dal consiglio comunale di Reggio che ha approvato all'unanimità un primo regolamento che certamente non è esaustivo, ma comunque inizia a sistemare paletti precisi, non è di poco conto.

Bollare le consulenze come "prebendificio" è superficiale, banale, demagocico, qualunquista, ma, soprattutto, non aiuta a focalizzare il problema.

D'altro canto, però, regolamentare il settore è necessità che garantisce non solo trasparenza amministrativa, ma anche esigenza primaria per la crescita del sistema nel suo complesso.

Pensateci: l'utilizzo distorto di istituti non autorizza nessuno a bollare come di per sè non funzionale alle esigenze della collettività l'istituto medesimo.

Se non si sa guidare un'automobile e si va spesso fuori strada sarà il caso di imparare a guidarla, di fissare delle regole, dei limiti di velocità e poi di rispettarli.

Lasciar chiusa l'automobile in garage elimina il rischio di incidenti ma ci fa anche restare indietro...

martedì 3 luglio 2007

E lo Stato che fa...???


...si costerna, s'indigna, s'impegna, poi getta la spugna con gran dignità.

Per uscire immediatamente dall'equivoco che può portare alla più grande ignominia per chi scrive, e cioè l'appropriazione indebita di citazioni, per chi non lo ricordasse chiarisco che la citazione è di quel genio, passato a miglior vita, di Fabrizio De Andrè.

Detto questo, il tempo dei sorrisi è già finito, dal momento che la pallina dei miei pensieri stasera, come ogni volta ha girato a lungo sulla roulette delle tematiche, ma si è fermata sul numero della vergogna e dell'orrore: la violenza sui bambini.

Sono stato alla seconda giornata del convegno organizzato dal gruppo Uen del Parlamento europeo ed ho ascoltato alcune relazioni.

Non tutte interessanti, molte relative ad argomentazioni trite e ritrite, ma una - in particolare- nonostante, anche qui, si trattassero tasti notoriamente dolenti, mi ha inchiodato alla sedia.

Saranno stati i numeri, sarà stata la partecipazione emotiva della relatrice che, in quanto donna, sul tema è stata assai coinvolta e chiara, ma il tema della "protezione dei minori", approfondito dall'europarlamentare Roberta Angelilli, non è passato inosservato.

Sapete quanti sono i minori a rischio pedofilia in Europa?

250.000!!!!

Sapete quanti sono 250.000?

Riempiono in ogni ordine di posti tre stadi di San Siro..

Al di là delle valutazioni tecniche, la sensazione è che il tema, da parte delle Istituzioni venga vissuto quasi con fastidio. Sissignore, io sono convinto che lo Stato non faccia tutto quello che può, quasi che agisca contro le comunità di pedofili (si, comunità, bisogna avere il coraggio di chiamarle col loro nome le cose) col freno a mano tirato.

Eppure, Santa Madre, il tutto avviene in rete.

Ora, esiste qualcosa di più controllabile della rete?

Credo di no, eppure anche il sistema normativo, oltre che repressivo, non pare adeguato.

E' così complicato vietare anche la fruizione delle immagini pedopornografiche?

E' così difficile capire quanto tempo ciascun utente trascorre su un sito di questo genere, così, solo per capire se ci è finito per caso oppure di proposito?

E' così difficile risalire a chi alimenta il mercato?

O forse la società, intesa nel senso più ampio, nelle stanze dei bottoni, ai livelli più alti, ha una paura maledetta di scoperchiare un pentolone dal quale potrebbero venire fuori, trasversalmente, tanti, tanti nomi di insospettabili?

O forse questo non si poteva dire?

lunedì 2 luglio 2007

Fatti gli italiani, a quando l'Italia?

Ma, in definitiva, perchè noi meridionali siamo così istintivamente, visceralmente legati al Paese Italia inteso nell'accezione centralista post-unitaria e, soprattutto, assistenzialistica post-bellica?
E' strano, perchè, ad essere lucidi, non sono pochi coloro i quali auspicano maggiore autonomia addirittura rispetto alle dinamiche regionali; però appena qualcuno propone di accentuare le caratteristiche federali dello Stato ci si irrigidisce in tanti.
Eppure uno Stato federale gioverebbe a tutti.
Certo, quella storica di Miglio - riproposta oggi da Borghezio- del Parlemento del Sud pare più una provocazione che altro, ma è certo che, entro certi limiti, con riserva esclusiva di materie come la sicurezza, la scuola, ma anche buona parte della redistribuzione fiscale, un sano federalismo potrebbe solo fare bene, anche alle zone del Paese più depresse.
Anni fa più di qualcuno si scandalizzò rispetto alle cosiddette "gabbie salariali"; certo, si tratta di un concetto da far digerire con calma e nel tempo, ma concettualmente è degno di essere preso in considerazione, al pari - di converso- di quello relativo ad una perequazione rispetto alle dinamiche di accesso al credito, così profondamente diverse tra Nord e Sud.
Ma un Paese che si rispetti e che, finalmente, voglia definirsi tale, deve avere il coraggio di difendere tutti, ma anche di rispettare tutte le diverse realtà, esigenze, conformazioni socio-economico-culturali.
Solo allora potremo dire di avere fatto l'Italia.
Perchè, probabilmente, il problema è esattamente il contrario di quello prospettato quasi 150 anni fa da Massimo D'Azeglio: fatti gli italiani, è ora di fare l'Italia

domenica 1 luglio 2007

Solo diritti, mai doveri; il filippino di Paolo Rossi

Fateci caso: nella società moderna si sente continuamente parlare di diritti. Ciascuna categoria, ogni singola persona non perde occasione per rifarsi alla conquista più alta delle democrazie: la centralità dei diritti.
Bene, benissimo, ma - come accade sempre- quando i concetti di base non sono bene assimilati e si pretende di pervenire al dato conclusivo direttamente, il fine ultimo, il "sentire collettivo" che ha elevato a diritto una fattispecie ne esce in qualche modo drogato.
Cioè, i diritti esistono fintanto che il modello sociale sta in piedi con equilibrio, e questo delicatissimo meccanismo trova le sue travi portanti nei doveri.
Sissignore, proprio in quelli che - superficialmente- potrebbero apparire l'antitesi dei diritti, ma che, in realtà, ne sono lo scudo invincibile.
L'assessore all'ambiente del Comune di Reggio Calabria, Antonio Caridi, ha pubblicamente accusato i commercianti del viale Messina di non avere alcuna cura dell'area mercatale della quale fruiscono e che, ogni qual volta terminano le attività di mercato, deve essere letteralmente bonificata. Lo spunto è troppo ghiotto per non approfondirlo. Ed allora - come direbbe qualcuno- diciamocelo: per anni Reggio è stata abituata - giustamente- a dare la croce addosso alle Amministrazioni che non riuscivano a garantire servizi minimi.
Oggi - in maniera controvertibile sulle scelte, ma inoppugnabile nel dato- la Città sta crescendo, o almeno sta provando a farlo.
Nei servizi, nelle prospettive, nel respiro.
La sensazione amara, però, è che il tessuto sociale di Reggio stia restando indietro.
Per assurdo che possa apparire, per una volta la politica sta correndo più velocemente delle altre componenti della Città.
E così se, ad esempio, l'imprenditoria fa fatica a comprendere che l'aria sta cambiando, ancora tanta, troppa gente continua a vedere la cosa pubblica come un fastidio, come un vincolo.
Un vincolo che genera un obbligo al rispetto di ciò che è tuo, ma solo in quota parte, per molti insopportabile.
Ed allora i cassonetti - nuovi- sono vuoti, ma - vivaddio- anche chiusi? Ed io dovrei scendere dall'automobile, premere il pedale per aprirli e lasciarvi dentro il sacchetto dell'immondizia?
Ma non se ne parla nemmeno!
Li lascio a terra a fianco ai cassonetti - vuoti- direttamente dal finestrino dell'auto.
Tanto, prima o poi, quelli della Leonia passeranno.
In un famoso sketch di Paolo Rossi, lui - senza alcun riguardo- lascia in disordine l'appartamento che avrebbe poi riordinato il filippino in ossequio al principio del "tanto, qualcuno poi passa".
Solo che, un giorno, questo qualcuno - il filippino, appunto- non ne può più, non raccoglie più le schifezze e, rispondendo al datore di lavoro (lavoro, non umiliazione, è un concetto diverso), gli fa: "Signore, ma lei dire sempre che poi qualcuno passa...ma, signore, chi cazzo passa?Io passa..." E, tornando a Reggio, sapete qual'è la novità e che fa il paio con la reprimenda dell'assessore, ad esempio?
Che in alcune zone della Città la Leonia svuota i cassonetti e non tocca i sacchetti che restano a marcire all'esterno, e lo fa di proposito.
Voi li biasimate? Io no, come il filippino di Paolo Rossi.