domenica 15 giugno 2008

La vergogna dell'Hospice di Reggio e la sindrome di capitan Uncino


“…sono devoto a capitan Uncino; ai suoi discorsi son sempre presente, ma non so bene cos’abbia in mente e non mi faccio più troppe domande. E non m’importa dov’è il potere, finchè continua a darmi da bere non lo tradisco e fino all’inferno lo seguirò…” (Edoardo Bennato)
Ma basta!
Basta!
Non se ne può più. Mentre la comunità è costretta, ogni giorno di più, ad organizzarsi in proprio per provare a prendere a spallate la montagna dell’ignavia, dell’indifferenza, la gente fa i conti con disastri sociali che si abbattono addosso senza che la classe dirigente muova un dito.
La vicenda dell’Hospice non rappresenta solo un momento di altissima gravità sociale, ma, soprattutto, lo specchio, l’emblema, la cartina di tornasole di ciò che accade.
Una struttura indispensabile per una società che voglia provare ad assomigliare a qualcosa di civile sta morendo giorno dopo giorno. La gente è stata costretta – sissignori, costretta – ad organizzarsi per la strada a mettere firme sotto un documento con il quale si chiede a chi di competenza ad attivarsi per evitare la chiusura.
Qui siamo veramente impazziti: bisogna raccogliere le firme per spingere la classe dirigente a fare il proprio dovere. Una classe dirigente i cui “sensori” che dovrebbero recepire le istanze dal basso e trasferirle in alto somigliano tanto ai devoti di capitan Uncino.
Una classe dirigente che non capisce cosa le viene chiesto e che, tantomeno, riesce a comprendere cosa abbia in mente il capitan Uncino di riferimento. Una classe dirigente che, da tempo, ha smesso di farsi domande in nome del bicchiere quotidiano che proprio capitan Uncino garantisce.
Ma la gente non ne può più. Qui si parla dell’Hospice, ma la tematica può spostarsi su altri crinali, ugualmente sdrucciolevoli, che presentano il medesimo grado di rischio.
Nessuno si chiami fuori, nemmeno la stampa.
Chi non è fedele ad un capitan Uncino scagli la prima pietra