mercoledì 23 dicembre 2009

Caro Babbo Natale...



Caro Babbo Natale,
solitamente noi di strill.it abbiamo il compito di smistare le istanze della gente e
trasferirtele sotto forma di richieste, più o meno esaudibili.
Stavolta, però, la letterina te la scriviamo noi; è una letterina “sui generis”, il regalo che ti chiediamo è di farci cambiare.
Sissignori: caro Babbo Natale, se è possibile regalaci un momento di rinsavimento, di resipiscenza.
Per Natale vorremmo ritrovare la nostra coscienza collettiva, l’anima della cose, lo spirito di una comunità, il senso della polis, dello Stato.
Non sappiamo bene dove lo abbiamo lasciato, se qualcuno ce lo ha rubato poco a poco o se questo uomo nero che ci amministra, che gestisce i nostri sogni e la nostra vita quotidiana, in realtà lo abbiamo creato noi, esattamente – forse senza accorgercene – per come abbiamo voluto che fosse.
Il Presidente della Camera, Gianfranco Fini, ha chiesto a gran voce, quasi implorato, alla gente di non votare per chi offre qualcosa in cambio.
Caro Babbo Natale, ecco, per questo Natale vorremmo – invece - che tu regalassi al Paese, alle popolazioni del Sud più che a quelle del Nord (perché c’è più bisogno) la forza di non chiedere a prescindere, la forza di non mercificare il proprio voto, la propria disponibilità al sostegno, elettorale, politico o amministrativo che sia.
E’ vero, caro Babbo Natale, che per essere liberi è necessario affrancarsi dal bisogno, ma il giochetto è banale ed un po’ meschino. Anno dopo anno la percezione del bisogno è salita sempre più inglobando nella sfera del necessario anche l’utile e spesso il superfluo.
Ed allora si può vivere bene e con la schiena dritta anche con un tenore di vita che non preveda automobili, telefoni cellulari, televisori lcd in nome dei quali, in nome di qualche centinaia di euro in più, troppo spesso la richiesta di favore, il clientelismo più basso e – quindi – più diffuso trova diritto di cittadinanza.
Caro Babbo Natale, per questo Natale, se puoi, restituiscici la voglia – prima ancora che la forza - di dire “no”, senza “se” e senza “ma”, la forza di indignarci, il coraggio – etico e morale – di mettere al bando comportamenti che la prassi tenta sempre più di assimilare ad una paranormalità ma che sono spesso illeciti, immorali e vietati dalla legge.
Ecco, un’altra cosa, caro Babbo Natale: per questo Natale, per favore, ridacci la lucidità e l’onestà intellettuale per chiamare le cose con il loro nome.
I ladri sono ladri in quanto rubano ed un extracomunitario è ladro quanto un politico, anzi moralmente lo è di meno, la “dazione ambientale”, terminologia inventata (e perseguita) dai magistrati di mani pulite negli anni ’90, non esiste. Erano (e sono) semplicemente dei meschini, volgari ladri.
Ladri di soldi (spesso), ma sempre ladri di opportunità, di speranze.
Caro Babbo Natale, per questo Natale facci tornare la forza per chiamare “ladro” o “delinquente” l’amministratore che i fatti e la magistratura abbiano definito tale, dacci la forza per combattere per il sovvertimento civile di bande di masnadieri che stanno troppo spesso a tenere il timone delle nostre vite, dacci la forza di resistere alla spinta, forse congenita nel nostro dna, di tentare in qualche modo di salire a bordo di questa sciagurata nave, piuttosto che tentare di affondarla.
Caro Babbo Natale, per questo Natale vorremmo regalata anche la capacità – morale e culturale – di tornare a distinguere il senso della legalità dal senso politico, come don Milani predicava quando l’Italia era giovane, piena di problemi, ma cercava una via, condivisa prima ancora che produttiva.
Il senso della legalità inteso come rispetto sacrale e senza distinzioni delle regole, siano esse statuali o etiche, il senso politico letto come spendita di ciascuno di noi per cambiarle queste regole quando non siano adeguate o, comunque, rispondenti al sentire popolare.
Ma finchè ci sono, finchè le regole sono vigenti, dacci la forza di fare prevalere, di sbandierare il trionfo del senso della legalità, estremo, inteso in senso asburgico come valore del dovere ed anche – perché no – della gerarchia costituita.
Solo dopo che ci avrai regalato tutte queste cose, caro Babbo Natale, potremo chiederti di regalarci delle cose che altri facciano per noi; ma solo dopo che ci avrai restituito un modo di essere che non ci appartiene più.
Caro Babbo Natale, noi non ti chiediamo indietro, come faceva Roberto Vecchioni – pentendosene immediatamente – “la mia 600, i miei vent’anni e una ragazza che tu sai…”, in quanto essi evocano semplicità e genuinità di valori, ma erano solo il frutto - oggi un po’ malinconico nel suo ricordo – di un modo di essere, non la sua genesi.
Buon Natale anche a te, Babbo; non preoccuparti…stavo solo scherzando…luci a San Siro non ne accenderanno più…

martedì 8 dicembre 2009

Chi ha dilapidato la lezione di Italo? Imputati, alzatevi!



da http://www.strill.it/ - A dicembre la notte arriva presto e, spesso, a Reggio, giunge accompagnata da quell'aria pungente che non può definirsi fredda ma che, alle nostre latitudini, incarna l'inverno, esattamente quella porzione temporale che anticipa il Natale, quasi lo chiama. Il freddo, quella settimana in cui anche il profondo Sud fa i conti con l'inverno, sarebbe arrivato – come sempre – a Gennaio.
Quella sera di dicembre, in piazza Duomo c'era tutta la città e chi non c'era era come se ci fosse; aveva mandato qualcuno, un familiare, un parente oppure era lì col pensiero.
Di quei giorni, di quando morì Italo Falcomatà, ricordo principalmente lo smarrimento della comunità reggina e, soprattutto, il silenzio, surreale, inverosimile, che regnava nelle strade.
Che il Sindaco dal sorriso triste fosse malato era cosa nota da tempo; era stato lui stesso, mesi prima, a comunicarlo alla sua gente con una lettera pubblica tanto struggente quanto carica di dignità, di contenuti.
Come sempre in questi casi le voci sul suo stato di salute si alternavano rincorrendosi e nelle ore che precedettero l'11 dicembre del 2001 i “rumors” dei maledettamente bene informati non lasciavano trapelare alcuna forma di ottimismo.
Eppure quando, quel pomeriggio, la notizia ferale si diffuse in città con un tam tam impressionante per velocità ed effetti, fu lo sgomento a prevalere.
Reggio si ritrovò come Cenerentola allo scoccare della mezzanotte: vestita nuovamente degli stracci delle proprie insicurezze ed a bordo di una zucca che aveva in un attimo sostituito la carrozza dei sogni che Italo aveva negli otto anni precedenti insegnato a costruire alla città.
Io non so se – come dicono in tanti – Italo sarebbe stato destinato ad una brillante carriera a livello nazionale (anche se il deserto morale e politico che ci circonda mi spinge a crederlo), ma una cosa è certa: Italo, oggi, sarebbe l'uomo giusto per una Calabria che non trova una via che sia una.
Il giudizio sull'amministratore lo lascio a ciascun cittadino reggino che abbia vissuto i periodi storici della città negli ultimi 40 anni, ma da quello sull'uomo politico non posso esimermi.
Italo Falcomatà, il professore, è stato “il” politico per eccellenza nella storia del secondo dopoguerra reggino. Se esistesse un “nobel” per la politica, nel senso più lato e puro del termine, solo lui avrebbe diritto a ritirarlo.
Italo mostrò a tutti il valore della mediazione – sociale prima ancora che politica - e, con essa, l'importanza della capacità di ascoltare prima e comprendere poi le istanze che provengono dal basso, passo necessario per intercettare i bisogni della collettività e poterli, poi, contemperare rispetto a scelte, spesso dolorose, che comunque un buon politico deve fare.
Italo mostrò a tutti il valore della caparbietà e della forza, dirompente, delle idee e lo fece restando in sella quando la gente non capiva cosa stesse accadendo, mentre andava banalmente in scena la commedia vecchia quanto il mondo, quella dell'invidia, con i suoi antagonisti politici a rispettarlo, pur da avversari, ed i suoi sodali di colore politico pronti con l'arco e le frecce a tirare giù quel piccolo uomo che pensava in grande, per sé e per la sua gente, quasi come se si fosse messo in testa chissà cosa...
La caparbietà di Italo resistette anche alle centinaia di mosche che possono uccidere un cavallo, come da lui stesso evocato, forte del consenso della gente, quella gente che magari credeva ancora nelle tessere di partito, ma senza che queste avessero mai il sopravvento sulla stima, sulla fiducia verso l'uomo.
Italo mostrò a tutti il valore del sogno. Quel sogno che, all'inizio degli anni '90 somigliava più ad un delirio che ad una smisurata ambizione; perchè in quegli anni, con la città devastata nel corpo e nello spirito, pronta a vendere gli immobili più prestigiosi per far fronte ad una spaventosa crisi economica, Italo potè offrire solo quel meraviglioso sorriso espresso dagli occhi prima ancora che dal volto e di cui ora la genetica ha regalato il testimone ai suoi figli, Valeria e Giuseppe.
La città – poco per volta – cominciò a fidarsi del professore e ricominciò ad avare fiducia in sé stessa, nei propri mezzi. Reggio, dopo decenni di isolamento, comprese che per rialzarsi poteva e doveva contare solo su sé stessa. E però, in questo percorso quotidiano lungo e faticoso Italo ci fu sempre, in ogni gesto rivolto alla gente semplice (che per lui non fu mai “povera”), tutte le volte in cui trovò il tempo per andare in una scuola piuttosto che su un cantiere.
Italo, però, insieme alla sua disponibilità, a straordinarie doti di arguzia ed ironia, mostrò a tutti anche il valore della fermezza, costi quel che costi.
Fu così quando – unico nella storia dei sindaci reggini da metà anni settanta in poi – sbattè le carte in faccia ed i pugni sul tavolo a Roma davanti al padrone delle ferriere, leggasi FFSS, per pretendere ed ottenere la risistemazione del lungomare devastato da quasi un quarto di secolo.
Fu così anche quando – sfidando tanti benpensanti e consigliori che reputavano la cosa impossibile – decise e realizzò dalla sera alla mattina lo sgombero di piazza del popolo, da decenni occupata stabilmente ed abusivamente dalle bancarelle del mercato.
Fu così anche quando, conscio della valenza sociale dell'evento - serie A, firmò domenica dopo domenica sotto la propria personale responsabilità il nulla osta per l'utilizzo del “Granillo” ancora privo dei certificati di agibilità.
La summa di questi fattori, unita ad una strordinaria capacità di conoscere, riconoscere ed interpretare ogni sfumatura dell'animo umano, fece di Italo Falcomatà “il” politico per eccellenza della Calabria ultima.
Roba della quale, dappertutto, si è persa ogni traccia; Italo non avrebbe mai permesso che la politica venisse travolta dall'arroganza, dalla totale chiusura verso le posizioni minoritarie, da un autoreferenzialismo talmente diffuso da non sapere più riconoscere quale potrebbe essere un altro tipo di accreditamento.
Cercare di comprendere cosa sia rimasto dell'insegnamento o anche solo degli spunti di riflessione offerti da Italo potrebbe essere esercizio arduo e, soprattutto, assai pericoloso nelle conclusioni.
Certo è che, come una rondine non fa Primavera, non basta un maestro solo, per di più per un periodo che il Cielo ha circoscritto, a formare degni allievi.
Che però, a distanza di nemmeno due lustri, nessuno si ponga più il problema e la “primavera di Reggio” sia stata ridotta da modo di essere, di pensare, a mero slogan elettorale mette tanta, tanta tristezza.
Quasi quanto quella sera di dicembre, quando l'aria pungente ed una pioggerellina insistente rimettevano nelle ossa dei reggini le loro ataviche insicurezze e rassegnazioni.
Era l'anno del Signore 2001, il mese di dicembre, il giorno 11, sembra un secolo fa.
Passano gli anni, ma otto son lunghi...

martedì 15 settembre 2009

Comunicazione di servizio...o forse no...

Alla luce dell'incessante chiacchiericcio che caratterizza una città di provincia come Reggio Calabria, io sottoscritto, sotto la mia personale responsabilità comunico che:
1)Non sono nè sarò il direttore di Reggio Tv
2)Non sono nè sarò il telecronista di Sky per la Reggina
3)Non sono nè sarò il responsabile della redazione reggina di CalabriaOra
4)Non sono nè sarò il responsabile della comunicazione della Reggina Calcio
5)Non sono nè sarò il portavoce o il capo ufficio stampa di qualsivoglia Ente pubblico

Di converso sono e sarò il comproprietario e direttore responsabile di www.strill.it

Si valutano proposte serie di massimo livello dirigenziale da La 7, Sky, Repubblica, Corriere della Sera, Inter, Juventus, Milan, Palazzo Chigi, Quirinale.

...oh, si fa per scherzare, ma non se ne può più....ah, se la gente pensasse un pò più agli affari propri....

martedì 7 luglio 2009

Pinocchio ha 128 anni. Ma quanti ce ne sono?


di http://www.strill.it/ - E' umano, normale e fisiologico che ciascuno cerchi di portare acqua al mulino di propria competenza, tuttavia da osservatori della società postmoderna che si staattorcigliando in un paradosso ineludibile qualche valutazione e, annesso, qualche dubbio lo pongo.Il dopoguerra ci ha insegnato in fretta che l'accumulazione della "roba" è, in realtà, la vera ossessione di chi frequenta le stanze dei bottoni, unitamente, però, all'esercizio del potere in quanto tale.
Non so se veramente comandare sia meglio che fottere, ma - Berlusconi docet - temo che le due cose coincidano, in senso figurato e tecnico.
Ma, fin qui, tutto sommato, nulla di nuovo sotto il sole. Il fatto sconcertante, però, è che ciascun occupante di posti rispetto ai quali debba dar conto pubblico del proprio operato, tende sempre e comunque a preservare l'immagine personale e nulla più.
E così se attacchi - ad esempio - un reparto di un ospedale che non funziona il primario ti risponderà sbattendoti in faccia il suo curriculum fatto di prestigiosissimi titoli acquisiti all'estero (che tristezza, di quelli italiani se ne vergognano...). Si, certo, sarà vero, ma i guai per la gente che frequenta il reparto restano.
Se accusi un politico di essere parte, più o meno responsabile, di un sistema che non assolve più alle sue funzioni primarie ed ai bisogni di base dei cittadini, ti sentirai rispondere, indignato che "io ho studiato qui, ho ricoperto questo e quell'altro incarico, bla bla bla...". Sarà vero anche questo, ma i problemi permangono e, anzi, visti i risultati, io non mi vanterei di essere in pista da decenni, a vario titolo, ed avere, quindi, contribuito allo sfascio.
E via così, in tutti i settori, abbracciando trasversalmente l'intero arco della classe dirigente del Paese e di questo Sud che, ormai, è solo la parodia di uno Stato di diritto che, in fondo in fondo, nessuno vuole si eserciti compiutamente, con annessa eliminazione di tutte le sacche di piccoli poteri.
Insomma, coloro i quali sono responsabili di qualcosa, nel momento in cui (e di questi tempi non è difficile) terminano nel tritacarne mediatico per accuse di inattività o mala-attività, non risponderanno mai "io ho fatto, io sto facendo", ma "io sono, io ho ricoperto questo incarico...".
E via così, amcora, in un continuo scivolamento di responsabilità, fino a sbattere (anche qui tecnicamente) la porta in faccia al giornalista di turno e comportandosi esattamente come Bennato, trent'anni fa, aveva scritto in "Sono solo canzonette": così è, "se vi conviene bene, io più di tanto non posso fare..."
In fin dei conti confondere le acque, ciurlare nel manico per dirla con Gianni Brera, è arte sopraffina che da sempre serve a mantenere quei privilegi di pochi che impediscono il compimento dei diritti dei più.
In questo modo, ogni giorno, soprattutto al Sud dove il caldo ti spacca in quattro per tre mesi all'anno ed anestestizza cervelli e sensi, indignazione ed anche un pò di dignità, si alimenta una dciotomia sempre più evidente, una forbice tra competenze dei singoli e prodotto pubblico dell'operato dei singoli stessi.
Qualcosa non quadra, qualcosa alimenta ogni giorno di più questa gigantesca bolla che tiene in ostaggio qualità e rigore morale.
Una bolla che, oltre ai curricula imutili nei fatti, si giova anche di curricula falsi o inesistenti, di gente inadeguata, inadatta o talvolta indegna di occupare posti di responsabilità e scelta.
Serve capacità e non basta.Servono gli studi e non bastano. Serve esperienza e non basta. Serve buon senso e non basta. Serve tensione etico-morale e non basta.
La grande finzione, in scena ogni giorno, è diventata, ormai in maniera stabile e riconosciuta, la Grande Bugia e ad essa, ogni giorno, il sistema si piega e si prostra, nella terra di Pinocchio.
Quel Pinocchio che, esattamente 128 anni fa, il 7 lulgio del 1881, faceva la sua prima apparizione nel panorama nazionale.
Non sarebbe mai più andato via...

martedì 12 maggio 2009

Dal referendum a Giorgiana Masi


da http://www.strill.it/ - La Calabria – come sempre – era lontanissima dai fermenti del resto del Paese; le immagini di un'Italia fatta di piombo e sangue, di una comunità che faceva fatica a professare lo slogan “nè con lo Stato nè con le BR” sventolato da “Lotta
Continua” soprattutto se inteso come presa di distanza contemporanea da un certo modo di amministrare lo Stato e la sovversione – attraverso la violenza – dei valori costituzionalmente sanciti e garantiti giungevano in Calabria attraverso la televisione.
Quei valori che il 12 maggio del 1974 conoscevano uno dei momenti più alti con l'esito del referendum sul divorzio che rigettava la proposta di abrogazione della norma che lo aveva introdotto nel dicembre del 1970.
Sono passati esattamente 35 anni da quel giorno, era un'altra Italia, un'altra società.
La Lazio di Chinaglia e Re Cecconi – quella mirabilmente e non casualmente passata alla storia anche attraverso uno stupendo saggio di Guy Chiappaventi – come la Lazio di “pistole e palloni” proprio quel giorno vinceva il suo primo, storico, scudetto e l'Italia, andando alle urne, dimostrava di esserci, di volerci essere.
35 anni fa per quel referendum andarono al voto oltre l'87% degli aventi diritto.
Il 59,3% dissero “no” alla proposta di abrogazione della legge istitutiva del divorzio.
Tre anni dopo, il 12 maggio del 1977, 32 anni da oggi, per le strade di Roma lasciava in terra con i suoi ultimi respiri sogni e speranze, ideali e passioni la diciannovenne Giorgiana Masi.
Stava manifestando insieme ad altre migliaia di giovani per celebrare proprio il terzo anniversario di quel referendum.
L'Italia, però, era ancora cambiata, in peggio.
Era un'Italia che viveva, che respirava – insieme – violenza e fermenti in una sorta di esplosione incontrollata.
Giorgiana manifestava pacificamente e basta, ma – come detto – in quegli anni il controllo della situazione sfuggiva facilmente ed i morti si contavano quasi quotidianamente, di qua e di là, tra Forze dell'ordine e manifestanti, spesso drammaticamente coetanei, trovatisi a giocare con la vita e la morte in una situazione più grande di loro.
La Calabria, come detto, era lontana da queste dinamiche, viveva altri drammi, i suoi personali, alle prese con sottosviluppo, un grande futuro dietro le spalle e – a Reggio – la prima guerra di 'ndrangheta.
Ma, senza saperlo, il 12 maggio - del '74 e del '77 - cambiava il volto del futuro del nostro Paese, Calabria compresa

lunedì 4 maggio 2009

Sugheri d'acciaio che si mangiano la Calabria


da http://www.strill.it/ - Ogni tanto (non sempre, per carità, con la salute non si scherza...) presenziare per intero ai lavori del Consiglio regionale è cosa buona e giusta.
Orbene (quanto mi piacciono gli avverbi...)
se hai la serenità e la lucidità per porti su uno scranno leggermente più in alto dei protagonisti – e questo il giornalista dovrebbe fare sempre – spunti di valutazione ne cogli a iosa.
Tra i mille guai che affliggono la Calabria la madre di tutti sta in una classe dirigente inadeguata e, ormai vecchia.
Mesi fa scrissi un fondo dal titolo “Chi si è mangiato la Calabria”. Era una ricostruzione appassionata della genesi di questa situazione di quasi non ritorno in cui ci siamo cacciati. Condivisibile o meno, certo non campata in aria.
Mal me ne colse, al mio ritiro in riva allo Jonio giunsero eco di non gradimento del pezzo.
E si lagnarono i vecchi e i giovani, i locali e i regionali.
Bene: una vecchia regola non scritta del giornalismo sottolinea che ciò testimonia la riuscita del pezzo.
Durante l'ultima seduta dell'Assemblea regionale – quella dedicata al piano di rientro dai 2 miliardi e rotti di deficit sanità – su un punto si sono trovati – a mezza lingua – tutti d'accordo: i dirigenti della sanità calabrese, ma il concetto potrebbe tranquillamente essere esteso, sono diventati una specie di ristrettissimo ordine sacerdotale dal quale non si esce.
Meravigliosa l'immagine che ci ha regalato Sandro Principe: sono come sugheri d'acciaio, leggeri come il sughero che galleggia sempre, ma, al tempo stesso, forti come l'acciaio inossidabile che consente loro di stare nell'acqua per decenni senza marcire.
Un Loiero in forma smagliante, al massimo delle sue capacità scenico- interpretative (leggendario il passaggio in cui ha detto “qualcuno dice che io sono un furbo, ma non è così...”), ad un certo punto, ben compreso che a fronte di un disastro di portata epocale avrebbe potuto solo assecondare gli strali, ha seguito Principe nel suo ragionamento, ma subito dopo si è lasciato andare ad un'ammissione che è scivolata via, ma la cui portata è gravissima.
In buona sostanza Loiero ha ammesso che alle spalle di questi “sacerdoti”, sulle qualità dei quali lui giura ad occhi chiusi, comunque c'è il nulla.
I guru da fuori in Calabria non ci vogliono venire ed all'interno della nostra terra c'è poco.
Delle due l'una: o non si trovano giovani manager capaci perchè, probabilmente, c'è un codicillo scritto piccolo piccolo, forse nemmeno scritto, che tra i requisiti aggiunge ai termini “giovani” e “capaci” anche quello “asserviti al sistema”, oppure il guaio è ancora più serio.
Il guaio più serio è rappresentato da una politica affarista ed acchiappatutto che nei decenni ha non solo depredato la Calabria, ma, soprattutto, ha azzerato la crescita di una classe dirigente, vera, seria e di ricambio.
Se, ad esempio, nelle strutture speciali dei consiglieri regionali, nate per garantire il necessario supporto tecnico-giuridico-amministrativo ai politici, quasi sempre troviamo gente senza né arte né parte che alla voce “studio” identifica solo una stanza della casa (dall'imprecisata destinazione d'uso), gente messa lì quasi sempre esclusivamente per soddisfare compromessi ed obbligazioni assunte in campagna elettorale, è lecito meravigliarsi più di tanto se, poi, al momento di fare le cose, di redigere i provvedimenti, le persone capaci, coloro che “masticano” diritto, principi economici ed amministrazione della cosa pubblica sono sempre meno?
E mentre i sugheri d'acciaio galleggiano la Calabria affonda...

15 anni e il motorino

da www.strill.it -
Avevo 15 anni, andavo a scuola, stavo per terminare il terzo liceo.
Il liceo era quello scientifico, il "Vinci" di Reggio Calabria, dunque relativamente vicino a via Apollo.
Via Apollo, per me non esisteva, nel senso che da pochi mesi (da quando avevo ottenuto dai miei il motorino) mi capitava di passarci, ma non ne avevo imparato il nome.
D'altra parte è una via piccolina, corta, stretta tra il castello e la via che – appunto – porta al Liceo scientifico.
I telefoni cellulari non esistevano, ad internet nemmeno la fantasia più sfrenata di Spazio 1999 era giunta, dunque le notizie ancora seguivano, almeno nella loro più immediata forma di divulgazione, la tradizione orale.
Ma, come cantava De Andrè, “una notizia un po' originale non ha bisogno di alcun giornale, come una freccia dall'arco scocca, vola veloce di bocca in bocca”.
Il musicista genovese, in realtà si riferiva a ben altro tenore di notizia, ma il concetto vale ugualmente e, francamente, quella mattina l'originalità – tragica – della notizia non era in discussione.
Era l'anno dei mondiali, quelli dell'82, che sarebbero andati in scena a distanza di poco più di un mese da quel 3 maggio.
Poco dopo le 8, quella mattina, in via Apollo saltò per aria con la sua automobile l'imprenditore Gennaro Musella.
Il boato scosse i muri, forse non a sufficienza le anime.
Per mesi, passando da quella via era possibile, alzando la testa, notare schizzi di sangue sui balconi (anche ai piani alti) del palazzo di fronte.
Reggio – che pure non era nuova ad attività feroci della criminalità organizzata – quella mattina saltò il fosso.
Nulla era più off-limits, tutto era concesso alla ferocia criminale.
E vennero le bombe, e vennero i morti ammazzati per le strade, e vennero i bazooka, e vennero ancora autobomba in pieno centro, davanti agli ospedali.
Io non ho mai dimenticato quella mattina di quindicenne che correva incontro all'estate, vuoi per una innata passione per gli eventi contemporanei che fanno storia, vuoi per la conseguente emotività con la quale vissi l'episodio; negli anni, in questi 27 lunghi anni, mentre altrove – giustamente – fanno delle ricorrenze simili un triste rosario di appuntamenti annuali, mi chiesi spesso perchè mai quella morte interessasse solo ad Adriana Musella, perchè mai sulla fine in stile libanese di Gennaro Musella, un imprenditore, non un boss o un magistrato scomodo (personaggi comunque “in guerra”) fosse sceso l'oblio.
La risposta forse è tutta nella piega differente che hanno preso gli eventi della storia criminale in Sicilia piuttosto che in Calabria.
La risposta è tutta nella folla che attende fuori dalla Questura di Palermo per insultare l'ultimo boss latitante catturato mentre a Reggio piovono applausi e fiori.
Non ho più 15 anni, non ho più il mio motorino, la sorte ha portato il mio lavoro quotidiano a 20 metri da via Apollo.
Che da oggi ho imparato a chiamare via Gennaro Musella

martedì 31 marzo 2009

Giustizia dopo 40 anni. Ma ne vale la pena?


da http://www.strill.it/ - Uno Stato vive anche di simbologia, di segnali forti, d autorevolezza nel cnfronti dei propri cittadini. E più autorevole è meno autoritario sarà obbligato a diventare.Uno Stato tutela e garantisce l'ordine, soprattutto l'ordine costituito. La forza di uno Stato passa anche per la capacità di dimostrare ad altre forme organizzate ma contrapposte - appunto - all'ordine costituito che, proprio come scandiva un triste (perchè in bocca ai terroristi) slogan degli anni di piombo "nulla resterà impunito".E per tutte le occasioni nelle quali lo Stato non riuscirà a mettere ordine nella ricostruzione dei fatti, ad assegnare responsabilità e sanzioni per questi, un altro ordine - nella fattispecie quello mafioso - avrà vinto-E la mafia sa bene, da sempre, che i cittadini hanno bisogno di riferimenti, di ordine ed in quel clamoroso deficit di offerta che, sul tema, proviene dall'organizzazione statuale ci si infila e sguazza a meraviglia.Uno Stato che in 40 anni non riesce ad avere "soddisfazione" per la strage di piazza Fontana ha perso in partenza.Ed ha perso anche sul piano del segnale che si manda anche alle organizzazioni criminali.Oggi, 40 anni dopo, a Palermo, verrà pronunciata la sentenza relativa alla strage di viale Lazio. Alla sbarra Salvatore Riina e Bernardo Provenzano.
Pioveva, quel giorno, su Palermo, quando entrò in azione “la nazionale dei killers”, capitanata sul campo da “Binnu u tratturi”ed in regia da “Totò u curtu”.
L'obiettivo era Michele Cavataio, che restò a terra, unitamente ad altre quattro persone, tra cui il cognato “in pectore” di Riina, Calogero Bagarella.
Era il punto esclamativo (il primo di una lunga serie) sull'ascesa dei corleonesi al potere criminale dell'intera Sicilia.
Due giorni dopo esplodeva la bomba di piazza Fontana.
Dopo 40 anni lo Stato...vince...
E mette sotto processo due ultrasettantenni pluriergastolani per mettere la ceralacca giudiziaria su una ricostruzione storica pacificamente accertata ed accettata da anni.
Ma ne vale la pena?

martedì 3 febbraio 2009

No more ace to play. Siamo ciò che abbiamo voluto


da http://www.strill.it/ - La Calabria ha giocato tutte le sue carte; nulla più da dire, niente più assi da calare.
Il testo – tradotto – appartiene ad una leggendaria canzone degli Abba - “the winner takes it all” che sottolinea come, quasi sempre, il vincitore prenda tutto.
In Calabria ha vinto il “vecchio”, ha vinto una visione arcaica della società che ha sgretolato poco a poco, dalle fondamenta, uno Stato di diritto che, tutto sommato, non ci appartiene per cultura, per tradizioni.
Chiariamo subito: alla fine – più o meno inconsapevolmente – è esattamente ciò che abbiamo voluto.
La nostra storia è scandita da episodi che sottolineano ad ogni piè sospinto il carattere feudale del nostro modo di essere, la baronia elevata a sistema, i piccoli-grandi soprusi quotidiani di una ristretta oligarchia a dettare i tempi; il diritto continuamente scambiato con il favore.
Senza lavoro, con prospettive di sviluppo inesistenti, con i servizi essenziali sempre più spesso ridotti ad una chimera, travolta dal malaffare e dagli sprechi, per la Calabria è giunta l'ora di dirsi, allo specchio, le cose come stanno.
“No more ace to play” - cantavano gli Abba – e, realmente, gli assi per la Calabria si sono esauriti.
Un serio, approfondito, doloroso esame di coscienza è necessario e, probabilmente non sufficiente.
Siamo proprio così sicuri che questa Calabria non sia esattamente la risultante di ciò che abbiamo voluto?
Probabilmente non esattamente ciò che avremmo voluto, ma la conseguenza di uno o più modi di essere, di concepire il rapporto di forze tra i vari pezzi del territorio.
In pochi, troppo pochi, hanno seriamente combattuto le oligarchie che trasversalmente si sono divisi, spartiti e mangiati la Calabria.
Il potente, il signorotto di cinquecentesca memoria da noi ha perfettamente titolo ad esistere, con la sua corte, i suoi bravi ed i suoi quotidiani soprusi.
Mai, seriamente, i vessati hanno pensato, nemmeno per un attimo, a sovvertire questo stato di cose e porre fine alle vessazioni; la massima aspirazione dei vessati è sempre stata quella di saltare la barricata, di essere accolti a corte.
In Calabria i”Promessi sposi” sono attualissimi, in tutte le loro sfaccettature.
In pochi antepongono con scienza e coscienza lo Stato di diritto al piccolo tornaconto personale; la bassa macelleria ha sempre il sopravvento e, soprattutto, ciò avviene senza alcun sussulto nelle coscienze collettive, quelle che formano la spina dorsale di una comunità.
Roberto Scarpinato ne “Il ritorno del principe” sottolinea – estendendo il concetto all'intero Paese – che la Costituzione repubblicana, con i suoi principi liberali, sia stata più subita a causa degli eventi che non maturata dal Paese.
Immaginarsi quanto questi principi siano passati realmente, in maniera consapevole in una terra, la Calabria, dove negli anni 70 ed 80 ancora il boss della zona pretendeva ed otteneva nel silenzio generale i favori sessuali delle donne del paese da lui scelte è esercizio semplice.
Ci siamo sempre convinti di essere più furbi degli altri, abbiamo sempre ritenuto che le leggi, le norme – statuali o dell'etica – fossero inutili protocolli da aggirare con facili scorciatoie che fanno regolarmente apparire il furbastro come il migliore.
Da noi non passa più da tempo il concetto di disvalore, solo quello – deviato - di valore, inteso come forza, potenza, potere. E poco importa come questi si siano generati e si mantengano.
L'apologia di Machiavelli ci accompagna ad ogni piè sospinto, unitamente al nostro innato vittimismo che ci regala una straordinaria capacità di trovare valide giustificazioni per ogni nostro comportamento, anche il più inqualificabile.
“Se uno ammazza un altro non gli chiedere perchè” recita un vecchio adagio popolare delle nostre parti; c'è sempre un perchè, un motivo valido. Lo Stato costituito, i valori dell'etica non contano più, probabilmente perchè sono annacquati. Abbiamo un codice tutto nostro che fa a sportellate con i principi dello Stato di diritto e con questi, il più delle volte, trova tristissimi accomodamenti.
In questo disastro etico-socio-morale anche i tanti che capiscono il dramma fanno fatica ad alzare la voce; è come negli incubi, quando provi ad urlare ed il fiato non viene fuori.
Il contesto non vuole, non capisce la ribellione nei confronti del padrone “interno”. Il contesto è pronto a ribellarsi all'ordine costituito “esterno”, nel momento in cui questo viene a turbare equilibri accettati e consolidati nei secoli.
Al signorotto locale, sia esso un politico, un mafioso, un notabile o chiunque venga fuori da questo perverso abbraccio che da sempre crea una melassa gestionale trasversale che rappresenta la classe dirigente il Calabrese non dirà mai di no.
Borbotterà quando non lo ascolta nessuno, ma non avrà mai il coraggio di fargli percepire lo sdegno di massa, il pubblico ludibrio. Sarà pronto ad ossequiarlo e riverirlo, allo stadio come al bar e continuerà ad accettare tutto nella speranza, un giorno, di essere ammesso a corte.
Ed intanto, generazione dopo generazione ci si assuefa ad ogni cosa.
Atarassia ed afasia prendono il sopravvento. Non si ha contezza diffusa dei diritti di ciascuno e, conseguentemente, non si ha cogniozione dei doveri, il che crea una diabolica scala sociale nella quale chi sta sopra utilizza la violenza (verbale, fisica, morale, economica) nei confronti di chi sta sotto. Ogni giorno, sempre e comunque.
Nulla facciamo per pretendere i servizi essenziali (strade, autostrade, sanità) e, contemporaneamente, siamo pronti ad appropriarci di larghe fette di suolo pubblico per uso privato.
Non c'è tensione morale.
E dove non c'è tensione morale non ci sono regole.
Senza regole non c'è futuro.

lunedì 19 gennaio 2009

A caddara avi a bugghiri pi tutti...


“A caddara avi a bugghiri pi tutti”.
Dietro questo apparente principio di uguaglianza rischia di celarsi la madre di tutti gli equilibrismi che è funzionale a tutto tranne che a ciò per cui, in teoria, l’uguaglianza dovrebbe andare a braccetto: la giustizia.
Il Csm, da anni principale responsabile della notte buia in cui è precipitato il potere giudiziario in Italia, per sistema fa finta di non vedere , non sentire e non capire.
In nome di scelte a metà tra la difesa della casta ed il cerchiobottismo suggerito dalle correnti che lo animano (o lo mortificano?) il Consiglio Superiore della Magistratura ha chiuso gli occhi cento e cento volte.
Dovendo essere obbligato a dare ragione ad un uomo con la toga e necessariamente torto ad un altro, l’organo di autogoverno dei giudici di questa patetica Repubblica non ha mai fatto pendere da un lato il piatto di quella bilancia che proprio i magistrati sono chiamati ad attivare.
Attenzione, ad attivare, non a tenere in equilibrio.
Un equilibrio ricercato, spesso, a forza di spinte e controspinte, come un arbitro incerto e nel pallone compensa gli errori da un’area di rigore all’altra.
“A caddara avi a bugghiri pi tutti” ha – in buona sostanza – sentenziato il Csm ogni qual volta ha deciso di non decidere su decine di fascicoli che certificavano veleni e porcherie varie negli uffici giudiziari di mezza Italia, con Calabria e Reggio in testa.
Non sono poche le iniziative giudiziarie che hanno trovato l’unica conclusione all’interno di fascicoli disciplinari che giacciono da anni al Csm. Stanno lì a prender polvere in attesa che qualcuno si decida ad analizzarli ed a sancire le ragioni di uno ed il torto dell’altro quando si tratta – spesso – di magistrati l’un contro l’altro o se comportamenti fuori dalle righe sono ascrivibili a togati indipendentemente dall’attrito con colleghi.
Nessuno muove, in una sorta di immobile bilancia, protesa in ogni suo respiro ad evitare sbalzi. Un equilibrio garantito proprio da quelle correnti che sanno perfettamente che “oggi evitiamo il sacrificio di uno dei miei e domani di uno dei tuoi”, così a “caddara continua a bugghiri pi tutti”.
Magistrati da trasferire immobilizzati nelle medesime sedi da decenni, altri da sanzionare – bene che vada – sul piano disciplinare ignorati; tutto fermo, liscio, uguale, uniforme proprio come il bordo della caddara che, per un attimo, qualcuno ha pensato che potesse essere rovesciata dal caso De Magistris.
La clamorosa ribalta mediatica della vicenda, una lite da pollaio goffamente camuffata – con sprezzo del ridicolo - da diatriba tecnico-giuridica ha reso impossibile porre in essere l’attività che meglio riesce al Csm: l’immobilismo più assoluto, in una sorta di tragico un-due-tre stella.
Dovendo necessariamente intervenire e, quindi, dovendo gioco forza attribuire delle responsabilità a qualcuno, il Consiglio Superiore della Magistratura si è letteralmente superato: a Palazzo dei Marescialli hanno rapidamente compreso che, partendo da quel presupposto, l’equilibrio poteva essere garantito solo dando torto – e quindi ragione – ad entrambi i contendenti.
Bacchettate a Salerno e bacchettate a Catanzaro (ma un po’ di più a Salerno, meglio mandare un segnale a chi non si è fatto gli affari propri e ci ha messo in questa odiosa situazione, avranno pensato al Csm), come l’arbitro che non ci ha capito niente di una rissa o – peggio – non vuole scontentare nessuno e sventola il cartellino rosso sotto il naso di entrambi i contendenti.
Sono bravi, a Roma; c’è poco da aggiungere, solo applausi. Come riescono a fare “bugghiri a caddara per tutti” loro non ci riesce nessuno.
Intanto l’Anm, per bocca del suo massimo rappresentante Palamara, festeggia con un grottesco comunicato che segnala come “il sistema abbia dimostrato di avere gli anticorpi”.
Un fatto è certo: con questa decisione – di fatto – il Csm non ha spiegato al Paese (e nemmeno lontanamente aveva intenzione di farlo) se De Magistris sia impazzito – e con lui la Procura di Salerno – o se la gestione degli uffici giudiziari di Catanzaro fosse stata improntata a guarentigie, privilegi e violazioni di legge inaccettabili in qualunque paese civile post-medievale.
Non ce lo hanno detto.
Anche stavolta “a caddara avi a bugghiri pi tutti”.
In maniera perfettamente uguale e antidiscriminatoria.
Con buona pace anche di Salvo Lima che – almeno – su quella frase potrebbe vantare, se fosse in vita, i diritti d’autore…

domenica 4 gennaio 2009


da http://www.strill.it/ - Se vi aspettate un editoriale colmo di speranze e di slanci di ottimismo in nome della classica svolta di fine anno sospendete qui la lettura; non è nostra intenzione guastare il San Silvestro a nessuno.
E’ nostra intenzione, però – oltre che costume consolidato da quasi tre anni – chiamare le cose col loro nome, e, soprattutto, guardare in faccia la realtà, sempre e comunque.
E più brutto è il viso della realtà sotto la maschera, più strill.it ogni giorno lavora per tirarla via, quella maschera.
Il 2008 che la Calabria e l’area dello Stretto si lasciano alle spalle va in archivio come uno dei più neri della storia, ma il 2009 che arriva manda segnali ancora più inquietanti.
No, non sarà un anno facile, il 2009; sarà – probabilmente – il nodo di esplosione dei conflitti sociali irrisolti, anzi alimentati da decenni.
E però se il nostro territorio vuole ancora avere una speranza questa passa necessariamente attraverso la presa di coscienza di tutti, nessuno escluso.
La gente, quella comune, le vittime dello stato di cose, per intenderci, non possono chiamarsi fuori dal gioco.
Quando la posta in palio si alza, pericolosamente visto che è a rischio l’abc del vivere civile, la massa ha non solo diritti, ma anche doveri morali da esercitare. Anche mettendo a rischio – ulteriore – sé stessi; la massa ha il dovere di farsi sentire, di sottolineare che, come diceva Totò, “ogni limite ha una pazienza”.
Ed invece, a fronte di una classe dirigente incapace quando non gaglioffa, quella “stragrande maggioranza di Calabresi onesti” è informe più che inerme, ormai assuefatta a tutto, incapace di indignarsi di fronte a sprechi e ruberie, ad incapacità conclamate e privilegi crescenti, senza capire che, ad esempio, proprio dove finiscono i privilegi cominciano i diritti e se i primi aumentano a dismisura i secondi finiscono per scomparire inesorabilmente.
E chi assiste passivo all’elisione continua dei propri diritti fondamentali probabilmente non ha – poi – gran titolo per lamentarsi, perché ha ciò che si merita.
Così come la classe dirigente calabrese – intesa in senso più lato possibile – è esattamente ciò che i Calabresi si sono meritati, e soprattutto hanno scelto, anno dopo anno, lustro dopo lustro. La tragedia, però, sta nella considerazione per la quale alle spalle dei vecchi timonieri si affacciano altri il cui spessore etico-cultural-morale pare addirittura inferiore.
Troppo spesso abbiamo assistito in silenzio ad imprenditori che odorano di malavita, a politici che fanno gli affaristi, a magistrati che fanno politica, a giornalisti che oscillano tra il voler fare i giudici ed assecondare la straordinaria attitudine a vestirsi da cane di compagnia dei potenti, scodinzolante e tenero sul tappeto davanti al camino.
In questa sorta di apocalisse civile, culturale, socio-economica, i Calabresi hanno da sempre pensato che, piuttosto che alzare la voce, fosse molto meglio (certamente più facile) guadagnare a gomitate la scia della nave in attesa dei resti del banchetto lanciati dal ponte ed accreditandosi, nel frattempo, per essere le prime riserve, nel caso in cui – non si sa mai – si liberasse un posto a bordo del Titanic, anche nella stiva, tanto poi Dio provvede…
E così i pretoriani dei predoni aumentano, giorno dopo giorno, ed hanno da tempo abbattuto il loro già scarso spirito critico.
Troppi Calabresi vivono all’ombra dello pseudo potente protempore e per loro calzano a pennello i versi di Edoardo Bennato a proposito dei seguaci di capitan Uncino: “...ai suoi discorsi son sempre presente, ma non so bene cos’abbia in mente e non mi faccio più troppe domande. E non m’importa dov’è il potere, finchè continua a darmi da bere non lo tradisco e fino all’inferno lo seguirò…”
Come ha visto chi ha scelto di arrivare alla fine di questo fondo di fine anno ce n’è abbastanza per avvelenarsi il 31 dicembre e l'1 gennaio, ma anche abbastanza per smettere di dirsi le bugie raccontando (prima a noi e poi al Paese) che si, la Calabria ce la farà, sta ripartendo.
No, signori, la Calabria non ce la farà se chi sta nella stiva a remare e basta non pretenderà che i timonieri sbarchino al più presto e che al loro posto – in tutti i settori – ne arrivino altri che posseggano i necessari requisiti culturali, tecnici, etici e morali. Ma questi – ahinoi – non si possono comprare; questi stanno solo sui libri.
Ma, parafrasando ciò che disse un noto personaggio dello sport reggino ad un altro, altrettanto conosciuto: “tra me e te ci sono montagne di libri contro montagne di soldi…”
Felice anno nuovo, signori.