martedì 9 dicembre 2008

C'è una Viola che vive su facebook!



di Giusva Branca - nella foto Mark Campanaro - Ce lo hanno spiegato in tutte le salse, anche se, presuntuosamente, noi di strill.it non ne avevamo bisogno: non si può più prescindere dalla rete. Non solo per veicolare notizie, informazioni, ma anche - o soprattutto - per capire i pensieri, gli umori, i desideri della gente.D'altra parte se Obama è il primo Presidente Usa targato, in qualche modo, facebook, il medesimo social network qualcosa vorrà dire in alcuni suoi dati.Su facebook,appunto, in pochi giorni il gruppo "nostalgici della Viola" ha raggiunto quasi 700 iscritti, continuamente in aumento. Anche nomi storici come Santoro, Rifatti, Tolotti, Bullara, Blanchard ne sono coinvolti, per un cuore, quello neroarancio che - incredibilmente - batte ancora.Reggio è una città strana, si riscalda a fatica, salvo poi incendiarsi all'improvviso e, soprattutto, vive maledettamente di nostalgie.Inutile negarlo, pur nel silenzio generale - e colpevole - un pilastro della storia cittadina (non solo sportiva, anzi prima sociale e poi sportiva) di oltre 30 anni manca a tutti.La Viola basket, però, non è stata una squadra; piuttosto è stata un'idea, un modo di vivere, di essere, un sistema per sentirsi comunità quando ogni cosa intorno a noi di Reggio faceva in modo che questo sentimento di comunità venisse disgregato, frantumato, sbriciolato ogni giorno.Viola è stato per decenni, per tanti, un modo per poter dire - per una volta non a bassa voce - "sono di Reggio Calabria".Pochino per una comunità che pretenda di dirsi civile?Può darsi, ma era l'unica cosa. Facile oggi, per chi non c'era sugli spalti ma non c'era nemmeno per le strade con i morti ammazzati, dire che era solo una squadra di basket.No, la Viola non è mai stata una squadra di basket; la Viola ha rappresentato la via di fuga, con i pensieri, quello scoglio al di là della burrasca - interminabile - al quale appigliarsi; la Viola è stata - a detta dello stesso Lillo Foti - l'esempio di conduzione di management sportivo al quale poi si ispirò la giovanissima Reggina Calcio; la Viola è stato lo straordinario testimonial sociologico che "anche a Reggio si poteva". Si poteva sfidare Milano e Bologna, Roma e Treviso, senza paura, uscendone spesso felici e vincenti; e sul piano della convinzione, negli anni, questo ha contribuito non poco a riannodare i fili del corto circuito storico generato dal post-rivolta e dagli anni tragici settanta-ottanta.Alla Reggio delle persone per bene e semplici a lungo non è rimasto altro; questa Reggio per decenni ha vissuto di Viola, sette giorni, nei cuori e nelle passioni di migliaia di persone che magari non hanno mai messo piede in uno dei tre campi (Scatolone, Botteghelle e Pentimele, se non è un record anche questo...), ma che restavano incollatie alla radiolina senza nemmeno respirare.Per generazioni di giovanissimi reggini che praticavano basket l'ambizione massima era vestire, anche solo per una volta, la canotta delle giovanili nero-arancio.A nessuno in città erano ignoti i nomi di Santoro e Bullara, Bianchi e Rossi, Avenia e Tolotti, Porto e Bryant, Laganà e Kupec, Campanaro, Hughes, Sconochini, Ginobili, Rifatti, Garrett, Young, Zorzi e Gebbia, Recalcati, Benvenuti, Lardo.E questa Viola - anno dopo anno grazie a personaggi come Viola e Tuccio, De Carlo e Scambia e poi Versace, Silipo, Abenavoli - creò, trainandolo, un intero cosmo di pallacanestro "minore" (che brutto termine per una cosa nobilissima). Una Viola che, per anni, si mantenne in piedi grazie alla passione di gente reggina, umile e capace, laboriosa e passionale.Favano, Messineo, Raineri, Morabito, Placanica, Falcomatà sono solo alcuni di questi e la loro attività per la città è meritoria altamente, al pari, in maniera parallela, ad esempio, di quella della famiglia Sant'Ambrogio, Ileano e Enza in testa, Franco, Sergio, Cesare e Carlo subito a seguire. Una Viola che produsse anche un'intera generazione di giovani tecnici. Nomi come Iracà, Benedetto, Bianchi, Tripodi, Romeo dicono ancora tanto nel panorama cestistico regionale e non solo (Bianchi e Benedetto, ad esempio, guidano Imola e Latina, in Legadue e A dilettanti)La Viola è morta, sul piano tecnico-agonistico. La Viola è ben viva nei cuori, perchè i valori non muoiono ed allora, in questo senso, aveva ragione il capitano storico della Viola, Sandro Santoro, capitano di quella Viola che passava da una tempesta all'altra, quando diceva che "qui non si muore mai..."Una Viola che, come una maledizione, come un perfido sortilegio, ha legato la sua storia anche a morti incomprensibili che si sono portate via De Carlo e Fulco, Mazzetto e Rappoccio e, da ultimo, Condello. Giocatori, dirigenti e tifosi, tutti tristemente livellati anzitempo.La foto ritrae un Mark Campanaro in perfetta forma, a 25 anni esatti dallo storico esordio in A2, dove proprio Campanaro quella Viola ce la portò di peso.Non sembri un'eresia: l'anima della Viola, anche lei, è in forma smagliante.E se...

sabato 6 dicembre 2008

Il re è nudo affacciannose ar palazzo...


da http://www.strill.it/ - "Ufficio vilipeso dalle perquisizioni", addirittura "pm denudati per essere perquisiti".Questa - secondo quanto si apprende da http://www.repubblica.it/ - la sintesi delle rimostranze portate a Roma, al Csm, dai vertici della Procura di Catanzaro con riferimento alla clamorosa iniziativa di indagine realizzata nei loro confronti dai colleghi della Procura di Salerno.Sarà che l'aria in Calabria - anche sul fronte-giustizia - è irrespirabile da anni; sarà che da troppo tempo (a mezza lingua, come si faceva in epoche medievali quando si parlava del signorotto proprietario di terre e, soprattutto, dei destini degli uomini) i normali cittadini calabresi convivono con l'amara sensazione - come fosse un retrogusto - di amministrazione della giustizia con crescente autoritarismo e decrecente autorevolezza; sarà quel che sarà, ma in maniera latente si avverte un senso di fastidio.Un senso di fastidio rispetto alla reazione scomposta dei magistrati di Catanzaro; nel merito deciderà (???) chi di competenza, ma ciò che infastidisce sono i metodi. Una sorta di conseguenza della lesa maestà alla quale, pur senza mai dirlo apertamente, i magistrati catanzaresi fanno riferimento.Parlare di ufficio vilipeso e addirittura di perquisizioni corporali con quei toni, automaticamente delegittima - questo si - da oggi in poi tutti gli altri provvedimenti di sequestro e perquisizione, anche corporale, che ogni giorno sono ordinati dalle Procure del Paese, con in testa proprio quella di Catanzaro.A meno che - e torniamo alla lesa maestà - non si chieda, ormai sempre meno a bassa voce, di sancire il reato, appunto, di lesa maestà e di specificare che ciò che conta non è più la legittimità dell'atto posto in essere, ma il destinatario e, con la sua individuazione, anche le modalità dell'atto medesimo.Ci hanno spiegato, sui libri e nelle sentenze, che il ricorso a tali mezzi di acquisizione delle fonti di prova nel nosto ordinamento di diritto è, certamente, una compressione della sfera personale e privata; compressione, tuttavia, necessaria per la tutela del bene collettivo che è sempre primario.Ci hanno detto che tale valutazione permane esclusivamente in capo ai titolari dell'azione penale ed ai giudici che, di volta in volta, autorizzano gli atti posti in essere.Ci hanno sottolineato che, rispetto all'accertamento dei fatti, nulla deve frapporsi sul cammino dell'acquisizione degli elementi che diventeranno fonti di prova.E proprio in ossequio a questo principio ogni giorno, in quel che resta di questa Repubblica, un certo numero di persone vengono tirate giù dal letto all'alba, viene rovistato nei loro cassetti sotto gli occhi attoniti dei familiari in pigiama; persone che vengono, se del caso, anche fatte denudare.E capita a tanti: sbandati e borghesi, delinquenti abituali e professionisti.Senza sconti per nessuno rispetto all'esigenza primaria di ricerca della verità.Tutti si sentono profondamente feriti nell'intimo, ma nessuno si è mai sognato di gridare al mondo di sentirsi vilipeso.Ma nessuna di queste persone - evidentemente - si è mai sentita come un re.Quel sovrano che ora è nudo ma che, in Calabria, con parole, atteggiamenti, opere ed omissioni, troppe, troppe volte ha urlato in faccia a tutti "affacciannose ar palazzo: io sò io e voi nun siete un cazzo..."

venerdì 5 dicembre 2008

In nome del popolo italiano?



Troppo tardi. Fuori tempo massimo. L’uscita dell’Anm che, rispetto al “pasticciaccio brutto” tra le Procure di Salerno e Catanzaro tuona, al pari del Capo dello Stato, ricordando che “ne va della credibilità della funzione giudiziaria”.
E se, per bocca di Luca Palamara, l’Anm si definisce “sgomenta per ciò che sta accadendo” in tanti, tutti coloro che conoscono uomini e cose calabresi e, soprattutto, della storia della magistratura calabrese degli ultimi decenni non sorridono, ma ridono di gusto. A crepapelle.
Eh si, perché con i termini “caso-Reggio”, “caso-Calabria”, “Procure dei veleni” i cittadini calabresi hanno fatto l’abitudine da oltre un ventennio, al pari dell’assordante silenzio di Csm e Anm, di Capi di Stato e Ministri.
Il Ministro della Giustizia di fine 2008, Alfano, parla di “onta per l’intero sistema giudiziario”.
Oggi, improvvisamente, l’Anm si ricorda che c’è una credibilità da tutelare, il Presidente della Repubblica si accorge che si tratta di una situazione senza precedenti.
Già, ma in tutti questi anni, nei mesi scorsi, tra corvi e microspie, tra veleni ed avocazioni strane, in questo tragico balletto tra i palazzi di Reggio e Catanzaro di precedenti se ne sono visti tanti, troppi per non credere che la credibilità della giustizia calabrese sia andata in frantumi lustro dopo lustro nei silenzi – incoscienti nella migliore delle ipotesi – di Csm e Anm, di Capi di Stato e Ministri.
Gli stessi, inaccettabili, silenzi che hanno fatto da cornice nelle scorse settimane alle devastanti dichiarazioni di Luigi De Magistris che, fino a prova del contrario, resta comunque un magistrato di questa sgangheratissima Repubblica.
“Una parte della magistratura calabrese non è estranea al sistema criminale”, disse De Magistris ai microfoni di Sky.
“Minchia!” avrebbe detto qualunque Ministro, Presidente di Anm, Csm, semplice magistrato inquirente di un Paese normale. Da noi, invece, non c’era nessuno e se c’erano dormivano.
Meglio così, meglio che lo sgomento arrivi ora, tutto insieme.
Un po’ come il Natale, quando arriva arriva…

giovedì 27 novembre 2008

E se i giovani boss sono bamboccioni il gioco vale ancora la candela?


da http://www.strill.it/ - Renato Cortese ha solo 44 anni. Oggi dirige la Squadra Mobile di Reggio Calabria, dopo avere lavorato dal 1991 a Palermo. Sedici anni all'ombra del Monte Pellegrino, prima sulle volanti, poi a dirigere la "catturandi". Un posto dove la noia non era certo di casa; Brusca, Aglieri, Vitale, Greco, Grigola sono solo alcuni dei latitanti finiti nella rete tessuta dagli uomini di Cortese prima del "colpo dei colpi", prima del "bingo" targato Bernardo Provenzano, l'11 aprile 2006.Gli occhi sono veloci e profondi, scrutatori eppure aperti, ti concedono fiducia.Della Calabria, della quale è originario - è nato a Santa Severina, in provincia di Crotone - conserva "l'amore per questa terra, violentata dagli uomini e poco altro, visto che la mia formazione, professionale e di uomo, è targata Roma e Palermo".
Un sondaggio di http://www.strill.it/undefined ha indicato che la gente ha paura più della "mafiosità dei gesti quotidiani che della mafia". Che significa?
Questo sondaggio ha ben fotografato il clima che ci circonda; mafiosità può indicare tutto e niente. La mafiosità può stare anche nei comportamenti della gente che non prende posizione o, addirittura, se la prende, in qualche modo solidarizza con la mafia. Certamente, però, in alcuni ambienti la mafiosità è alimentata da clamorose inefficienze della Pubblica Amministrazione che originano pericolose corsie privilegiate...
Ma c'è ancora spazio per la speranza vera, quella non di facciata, obbligata dai ruoli?
Noi facciamo il massimo, ma saremmo degli stupidi se non avessimo anche obiettivi mediati che superino quelli immediati. Noi riteniamo che si possa cambiare, realmente. Se pensassi, anche solo per un attimo, che non c'è speranza farei altro, mi creda. Sono convinto che sia del tutto prevalente la gente che vuole, pretende che prevalga il bene. Ma questa gente attende da noi dei segnali forti, continui e coerenti. Arrestare i latitanti, condannarli, assicurarsi che restino effettivamente in galera per gli anni che sono stati loro comminati e procedere al sequestro dei beni accumulati in maniera illecita.
I beni, la "roba" di verghiana memoria quanto entrano in questo discorso?
Entrano tanto, ma non sono l'unica cosa: tante volte l'esercizio del potere mafioso è di per sè bastevole a giustificare le scelte di vita dei criminali. Il potere mafioso fine a sè stesso, intendo dire, anche se questa concezione in Calabria è meno diffusa che in Sicilia.
Ecco, la Calabria e la Sicilia, due mondi così vicini e così lontani, anche dal punto di vista criminale
Certo, sono due realtà assai diverse; paradossalmente la mafia è più facile da decapitare in funzione della sua strutturazione verticistica. Lo sviluppo orizzontale della 'ndrangheta rende assai più complicato sgominarla, al pari della connotazione familistica delle cosche che consente loro di cambiare pelle velocemente. Prevedere le mosse di una cosca di 'ndrangheta è veramente difficile ed anche le alleanze tra consorterie criminali vanno riverificate di volta in volta. Non è possibile dare nulla per scontato. Certo, una notevole disattenzione dello Stato verso la Calabria, nel momento di massimo sforzo contro la mafia siciliana, ha agevolato lo sviluppo della 'ndrangheta
C'è anche una notevole differenza nell'abbraccio con la politica?
Beh, si; fin qui in Calabria non sono stati dimostrati legami stabili e duraturi, veri e propri assi. Piuttosto emergono sinergie temporali, rispetto a fatti specifici. La storia ha dimostrato che diverso è stato in Sicilia ed anche questo dipende dal fatto che nell'isola la commissione, il vertice, ha sempre deciso tutto e per tutti. Da questa parte dello Stretto non è così.
In quali settori, nello specifico, l'attenzione dello Stato va concentrata?
Torno sull'aspetto dei beni: la ricchezza sviluppata dalla 'ndrangheta è qualcosa di inimmaginabile, di spropositato, eppure sul territorio resta poco o nulla.
E allora?
Allora da qualche parte saranno queste ricchezze, in Italia o, come ormai dimostrato, in mezzo mondo...
Ed il territorio calabrese come vive con la 'ndrangheta? O forse sarebbe meglio dire convive...?
Lo ripeto: credo che ci sia tanta, tanta gente che chiede di vivere tra diritti e doveri, nel rispetto delle libertà costituzionali. Ed a Reggio, mi creda, molte libertà, basilari in qualunque Stato di diritto, non sono garantite. Fin quando chi aprirà un bar saprà che prima o dopo arriverà qualcuno che gli dirà: "Bene, da oggi siamo soci", i diritti basilari non saranno garantiti. Ci pensi bene. Qui non siamo più di fronte alla semplice estorsione periodica; qui ci sono interi comparti dell'attività commerciale locale totalmente nelle mani della 'ndrangheta
Eppure questa cappa soffocante che pressa sulla città non si traduce in reazioni evidenti, come avvenuto, invece, in Sicilia
Esattamente questo è il nodo del discorso; in questo momento storico la potenza espressa dalla 'ndrangheta è fornita in maniera inequivocabile dai numeri, quelli relativi alla finanza ma anche quelli dei latitanti. Lei pensi, solo a mò di esempio, che tra i 30 latitanti ritenuti più pericolosi del Paese ce ne sono ben otto di Reggio!
Ma la città dov'è?
Alla gente, come ho detto prima, bisogna dare segnali di continuità nella discontinuità col passato. Oggi ad ogni arresto eccellente intorno alla Questura di Reggio registriamo il deserto. A Palermo era la stessa cosa; quando arrestammo Brusca, nel 1996, di quelle immagini ricorderete solo i miei uomini che festeggiavano. Esattamente dieci anni dopo era cambiato tutto; fuori dalla Questura di Palermo c'era mezza città. Volevano far festa e sbeffeggiare il boss arrestato. Ma a quel momento si arrivava dopo un lungo percorso fatto di arresti, di sequestri di beni; un cammino attraverso il quale la massa aveva capito che si poteva alzare la testa, che era possibile veramente un riscatto. Uno ad uno erano caduti tutti i falsi miti criminali fino a giungere alla cattura del boss.
Quel boss era Bernardo ProvenzanoProvenzano, "iddu". Inseguito per otto anni fino alla creazione di una squadra speciale solo per lui. Quando un obiettivo, il più importante, diventa l'obiettivo in qualche modo ti cambia la vita
Se per otto anni, tutti i giorni, vivi con un unico pensiero, vai a letto con quello, ti svegli solo con quello, in qualche modo diventa parte della tua vita. Una specie di fantasma, del quale non si avevano tracce nè foto dal 1963. Quella mattina, in quel casolare, in un attimo ho rivisto anni di lavoro di un gruppo di 30 uomini che hanno condiviso idee, tracce ma anche emozioni, speranze, sacrifici e, come dico sempre ai miei uomini, la rabbia. La rabbia, quella giusta, canalizzata e gestita verso il massimo rendimento è necessaria per poter fare questo mestiere; un mestiere che ha il sapore della sfida e del sacrificio, della pazienza e dell'intuizione. Uno dei mestieri più belli del mondo perchè ti consente di ragionare, di verificare giorno per giorno "incastri", legami, coincidenze apparenti. Tutto ciò, vedendomi di fronte Provenzano - e non ho dubitato nemmeno per un secondo che fosse lui - ha avuto un senso e si ripete ogni volta che chiudiamo un cerchio, che assicuriamo alla giustizia qualcuno che ne vuole sfuggire.
Ed il futuro della lotta alla criminalità organizzata per cosa passa?
Certamente per la piena comprensione da parte del tessuto sano della società che l'indifferenza rispetto al fenomeno è, oltre che a vantaggio del fenomeno stesso, anche impossibile perchè, prima o poi, in qualche modo ti tocca, anche se sei lontano anni-luce sul piano culturale, sociale.Quando a Palermo iniziarono a saltare per aria pezzi di strada più di qualchuno fin lì indifferente cominciò a chiedersi: "Beh, che sta succedendo qui? Lì poteva esserci mio figlio, mia figlia...". E' da lì che cominciarono a cambiare le cose, ma lo ripeto, subito dopo attraverso le risposte secche, nette, congrue e continue dello Stato. Anche in Calabria sarà necessario arrivare a questo
Ma sul piano culturale in Calabria le eredità familiari delle cosche, sotto forma di mentalità, di mafiosità pura, rischiano di essere invincibili
C'è un dato nuovo, strettamente culturale, direi sociologico: il mondo è cambiato. Oggi non credo che le giovani leve possano accettare con tranquillità di passare una vita in galera o di vivere per 40 anni in un casolare a pane e formaggio come Provenzano accontentandosi del potere per il potere. Oggi l'aspetto consumistico incide pesantemente anche sui giovani criminali che sono abituati alla bella vita fatta spesso di lussi. Non penso che siano in condizione di accettare l'idea di rinunciare a tutto questo. Però il segnale che arriva dallo Stato deve essere inequivocabile: gli arrestati ed i condannati dovranno scontare la loro pena in galera, col carcere duro e la dovranno scontare tutta, senza sconti. Se passerà questo messaggio vedremo molti giovani leve, anche in posizione di comando, che comprenderanno che il gioco non vale la candela. Esporsi ad una vita fuori dalle regole senza nemmeno poter godere delle ricchezze prodotte non sarà accettato. Nella società moderna il concetto che dicevamo prima del potere fine a sè stesso non basta. Nel nostro piccolo io ed i miei uomini lavoriamo per questo
Già, i suoi uomini, quelli che difende sempre e comunque, più di sè stesso
Ma non a priori, solo dopo averne verificato le capacità professionali e morali. In quel caso metterò sempre la mia faccia, il mio corpo davanti a loro.
Quegli uomini ai quali, ad ogni compleanno di ciascuno non manca di far trovare sulla scrivania un biglietto personale di auguri firmato Renato Cortese
"Ma queste sono cose interne nostre", sorride un pò imbarazzato ed un pò sorpreso del fatto che, per una volta, l'interlocutore si è dimostrato buon investigatore...

In galera? Ma io li manderei a scuola!


da http://www.strill.it/ - Che tristezza dire "lo avevamo detto". Che meschine soddisfazioni ci regala il clima di questo territorio, miseramente sprofondato agli inferi a causa di cialtronerie ed omissioni crepuscolari, per colpa di giochi di pseudo-potere da basso impero. Tutti sulla pelle della gente. Tutti, regolarmente, posti in essere confondendo ad arte il fine (il benessere collettivo) con lo strumento (approntare rimedi, fare scelte funzionali all'obiettivo).Lo avevamo detto pochi giorni addietro: il "Tito Minniti", minato alle fondamenta da scelte miopi e di cortissimo respiro, tirato giù dalle sabbie mobili di una politica che non ha più senso di esistere, almeno secondo la sua accezione classica, riceve il colpo di grazia da Alitalia-Cai che, con la benedizione di una crisi epocale, è "obbligata" a fare scelte che comportino lacrime, sudore e sangue.Il fatto è che, però, le scelte le fanno loro, mentre lacrime, sudore e sangue sono tutti per la gente normale, quella che vorrebbe solo, nel 2008, potersi spostare dal cul de sac in cui la natura ha sistemato questa disgraziata terra.Come preannunciato - ancora - i voli da e per Reggio, già scarsi, sono stati tagliati in maniera consistente. Con la compagnia di bandiera (chiamatela come volete) non si vola più la mattina presto per Roma (primo volo ore 11) e non si vola più in assoluto per Milano. Per fortuna resistono i vettori - peraltro non portati a Reggio da Sogas, ma dall’Amministrazione comunale - Myair (su Bergamo) e Airmalta (su Fiumicino). Ma fino a quando?Stando così le cose, nel Paese e nel mondo, adesso, in questa fase storica si potrà fare ben poco per uno scalo depauperato di risorse, ambizioni e potenzialità nei decenni da quella politica fatta, prima che da inetti, da incapaci, guidati da cupidigia pari solo all'ignoranza più crassa che anima ogni loro respiro.E, come diceva Stevenson, a proposito dell'inettitudine etico-politico-morale degli amministratori pubblici, "io non vorrei vederli in galera, vorrei mandarli a scuola!"Il che, per molti di loro, rappresenterebbe una sofferenza molto meno accettabile della gabbia.

mercoledì 10 settembre 2008

Lo sprezzo del ridicolo

da www.strill.it
Fino a che punto è lecito ed eticamente corretto passar sopra a dichiarazioni di uomini vicinissimi ai 90 anni e, soprattutto, distanti quasi 40 anni dai fatti di cui parlano?
Non lo sappiamo, ma quanto dichiarato al “Sole 24 Ore” di oggi dal Senatore della Repubblica Emilio Colombo, collega giornalista e già Presidente del Consiglio dei Ministri al tempo della rivolta di Reggio non può scivolare via inosservato.
Nel pezzo pubblicato a pagina 5 dell’inserto “Sud”, Colombo torna sulla rivolta e sulle scelte del suo Governo, quello dal quale, storicamente, la città di Reggio si sentì tradita e sbeffeggiata.
Le sue dichiarazioni rappresentano un misto di accusa di ingratitudine rivolta ai reggini e di patetico tentativo di minimizzare le scelte del Governo di allora, lasciandosi andare ad un pericoloso esercizio di deresponsabilizzazione portato avanti con evidente sprezzo del ridicolo.
“Volli il quinto centro siderurgico a Gioia Tauro” – dichiara Colombo.
Peccato che il Presidente del Consiglio dell’epoca fosse perfettamente a conoscenza del fatto che il comparto-siderurgia fosse già in crisi.
E questo è un fatto, anche perché il buon Piero Battaglia si starà rivoltando nella tomba, dopo avere, però – per fortuna – messo nero su bianco nel volume “Io e la rivolta” di Enzo Laganà, edito da Falzea Editore nel 2001.
E da questo volume lo stesso Colombo non esce benissimo, e nemmeno bene e neanche così così.
Ne esce a pezzi. Troppo facile rispondere quando la controparte è passata a miglior vita.
Ma c’è di più: nell’intervista rilasciata al “Sole”, Colombo rincara la dose e parla anche della “Liquichimica” di Saline (in realtà lo spunto dell’inchiesta del quotidiano è proprio questo).
“L’impianto di bioproteine avrebbe portato molto lavoro” – dice Colombo.
Peccato che la fabbrica non andò in produzione un solo giorno per il veto di Comunità Europea e Ministero della Sanità (questi sconosciuti, vero Colombo?)
“Non si può parlare di beffa o di progetto per imbrogliare la gente” tuona il senatore.
Insomma, se gli unici due progetti presentati dal suo Governo a risarcimento (parziale) dello scippo del capoluogo fallirono miseramente, bocciati – subito e non dopo 20 anni – dal mercato e dagli organi di controllo, la colpa, evidentemente, è del destino, notoriamente cinico e baro.
Ma, a proposito di rivoltamenti nella tomba, Colombo la ciliegina la lascia per il finale: “Se i reggini oggi camminano sul lungomare” – dice il senatore a vita - “lo devono a me. Grazie a quel pacchetto furono ricoperti i binari della ferrovia che tagliava il bellissimo molo (!!!??? è evidente che gli anni pesano…quale molo?) di Reggio.
A rivoltarsi nella tomba stavolta è Italo Falcomatà.
A ben pensarci, però, un lato positivo c’è: finalmente abbiamo trovato il responsabile di 25 anni di scempio della via Marina reggina…

domenica 7 settembre 2008

Qualcuno ci guarda...


Il Sindaco di Comiso decide di revocare l'intestazione dell'aeroporto ad una delle tante vittime di mafia, Pio La Torre.

Rimuovere il passato, il ricordo, provare ogni giorno, con costanza, a rimuovere il sangue, le vergogne del Paese.

Ma ricordiamoci tutti che ci guardano tutti dall'alto, da lassù.

Tutti i morti ammazzati per difendere lo Stato, le Istituzioni, i pilastri su cui poggia la civile convivenza ci guardano.

Sempre

mercoledì 27 agosto 2008

Federalismo, ultima Thule?


Quanto vale un territorio?
Si, proprio in termini economici: quali sono gli indicatori dai quali desumere in termini concreti il contributo analitico di ciascun territorio rispetto, ad esempio, ad uno Stato?
Il federalismo incalza e, ormai, è un processo inarrestabile.
La battaglia, naturalmente, è sui parametri dei fondi perequativi Regione per Regione e qui fa bene Loiero ad alzare la voce (se la Calabria ne ha ancora) nel tentativo di strappare anche un euro in più.
Ma è bene comprendere tutti che siamo di fronte ad una svolta storica.
Nelle stanze dei bottoni della Regione Calabria, in maniera più o meno dissimulata, c’è tanta preoccupazione per ciò che sarà, per una consistente parte di fondi che, alla fine dei conti, non saranno più nella disponibilità della Calabria.
Ma – e torniamo alla domanda iniziale – quanto vale un territorio?
Un territorio vale – indiscutibilmente – per ciò che produce; per carità non deve e non può essere ricondotto tutto ad una logica aziendale.
Proprio in questi giorni un guru dell’economia mondiale come Mario Monti ricordava come il modello di riferimento dei Paesi più sviluppati non possa essere la pura economia di mercato, rilanciando, invece, quello nato nel dopoguerra di “economia sociale di mercato”.
Però, in questi limiti, è anche vero che un territorio non può pensare di stare in piedi solo su trasferimenti che arrivano dallo Stato centrale o dall’Europa e su commercio ed offerta di servizi (pochi e malridotti).
E la produzione dov’è?
Insomma – traffici di droga ed armi a parte – quanti e quali sono i settori o anche le singole aziende calabresi che stanno sui mercati, che sono competitivi?
Il riferimento al crimine potrà apparire sgraziato e fuori luogo, ma va letto come una provocazione voluta e che, come tutte le provocazioni, muove da dati reali.
Resta il fatto che il federalismo impone ad una Regione intera di cambiare.
Cambiare modi, cambiare testa, cambiare modelli di riferimento, anche se tutto ciò non sarà indolore e passerà attraverso periodi difficili e forse anche lunghi.
Il federalismo impone a tutti noi di cominciare a pensare di imparare a costruire una canna da pesca, piuttosto che, come spesso accade, ingegnarci su come recuperare un secchio di pesci già pescati – meglio se già cucinati – che saranno più comodi, ma non garantiscono il domani

lunedì 4 agosto 2008

Chi si è mangiato la Calabria?


Quasi un mese e mezzo di assenza dal blog; cose ne sono successe tante e, purtroppo, quasi tutte nella medesima direzione, quella di un Paese e, al suo interno, di una Regione, nella quale sono saltati i meccanismi.Tutti.

La valutazione che segue è stata pubblicata su http://www.strill.it/

Quale Calabria ci aspetta? Il futuro appare come un tunnel sprangato in fondo, ma, soprattutto, ciò che è accaduto ed accadrà in Calabria è tanto, troppo ben definito, nelle cause e negli effetti.
Partiamo dal passato e ragioniamo per generazioni di classi dirigenti, tenendo nel debito conto che, naturalmente, per ogni contesto esistono le dovute eccezioni che, tuttavia, proprio in quanto tali non riescono ad incidere più di tanto sul contesto medesimo.
Gli ultrasessantenni di oggi, coloro che spesso e volentieri si aggrappano ancora alla poltrona, sia essa politica o economico-finanziaria, hanno sulla coscienza in toto lo sfascio.
I trentacinque-quarantenni degli anni ’80, quando tutto pareva permesso e, soprattutto, privo di conseguenze, si sono spartiti il territorio e le risorse, hanno lottizzato le speranze ed il futuro dei calabresi.
Non ne avevano il diritto ma lo hanno fatto ed oggi, in massima parte sono ancora lì ad inventarsi l’ennesimo gioco di prestigio pur di non scendere dalla giostra.
Una giostra che, peraltro, dopo aver letteralmente smontato pezzo per pezzo, oggi fanno una gran fatica a gestire, a governare.
Una regione, la Calabria, in cui nessuna parte può chiamarsi fuori e che somiglia maledettamente, nelle sue distorsioni, al Paese, dove, per uno strano corto circuito, i politici fanno gli affaristi, i giudici fanno politica ed i giornalisti fanno i giudici.
Ma in realtà la somiglianza è solo apparente, perché chi conosce bene le cose di Calabria – soprattutto ponendo l’ago del compasso all’inizio degli anni ottanta – sa che da noi le cose sono andate in maniera un po’ diversa, con i politici –si - a fare spesso gli affaristi, troppo frequentemente al pari di certi giudici, ai quali dalle nostre parti non è mai fregato particolarmente di fare politica, mentre, per non sbagliare, i giornalisti guardavano trasformando il ruolo di cane da guardia della democrazia in cane da compagnia, quando non in cane da riporto.
Gli anni passano, tuttavia, i nodi vengono al pettine ed i giovani rampanti incalzano.
La generazione dei quarantenni di oggi assomma due peculiarità negative: la prima come vittima e la seconda come carnefice.
Si ritrova a dover pagare – salatissimo – il conto lasciato da chi li ha preceduti (e spesso è ancora in sella alla piramide politico-dirigenzial-imprenditoriale) e, di contro – salvo rare eccezioni – non ha gli strumenti culturali e spesso etici per poter nemmeno lontanamente sapere da dove cominciare per mettere una pezza al disastro.
Diciamolo chiaramente: il rampantismo fuori luogo e fuori contesto degli anni ’80-90 ha prodotto una generazione nella quale abbondano coloro che sono “senza né arte né parte”, i “senza domani” della politica.
Una volta, nel dubbio, per garantirsi in qualche modo un futuro decente si sceglieva, per esclusione, la strada della laurea in Giurisprudenza; i quarantenni di oggi in molti casi hanno pensato che “buttarsi in politica” alla fine è meno faticoso (i libri pesano sempre) e, comunque 4-500 voti si “arrangiano” in un modo o nell’altro e, male che vada, ti garantiscono uno stipendio.
E così il livello culturale, etico e politico delle Assemblee elettive calabresi è andato sprofondando sempre più, al punto da diventare, per i cittadini, addirittura imbarazzante assistere ad una qualunque seduta di un qualunque Ente (e meno male per la decenza pubblica che i media locali non trasmettono le sedute).
Qualche quarantenne o giù di lì di livello superiore alla media o non trova interlocutori o, peggio, riesce ad “incartare” tutti.
Ma i quarantenni senza né arte né parte in Calabria sono una triste realtà non solo nel mondo politico.
La galassia imprenditoriale – anche qui salvo rare eccezioni – è composta da “gente-che-si-è-fatta-dal-nulla”, il che, tradotto in italiano e depurato dal “berlusconismo” dilagante significa gente che in maniera strana, talvolta anche poco limpida, comunque sempre al di sopra delle righe, è divenuta interlocutore del mondo politico (in qualche caso, anzi creata ad arte dal mondo politico medesimo) ma senza il minimo respiro di prospettiva.
In troppi casi la storia ha dimostrato che più che di imprenditori si tratta di prenditori, di risorse pubbliche, comunali, regionali, statali o europee che siano, senza che a questa “presa” segua uno straccio di progetto di impresa, di sviluppo, di crescita sul territorio.
In troppi casi si è preferito il cesto di pesci piuttosto che la canna da pesca, ma – vivaddio – il modello culturale di riferimento qualcosa dovrà pure contare.
In questo clima da “ultima corsa, si salvi chi può”, anche i professionisti calabresi ed il mondo accademico hanno le loro responsabilità: ciascuno ha pensato solo ed esclusivamente al proprio orticello cercando la via più breve per mettersi in salvo, per garantirsi quella piccola fetta di potere da esercitare in maniera sinergica e/o funzionale ad un dominus investito di tale potere a seconda delle situazioni.
Pronti, comunque, a riciclarsi nascondendosi dietro il nobile paravento del “professionismo” che, però, dovrebbe riguardare solo l’aspetto, per l’appunto, strettamente professionale, mentre la sfera politico-sociale-amministrativa dovrebbe obbedire a ben altre logiche.
Il mondo accademico, dalla sua parte, invece di battere i pugni, provare a demolire il demenziale castello che si andava edificando ha pensato bene di tirar su il ponte levatoio e sguinzagliare i coccodrilli tranciando ogni rapporto con il resto della classe dirigente.
Ma, come recita il Vangelo, si può peccare in pensieri, parole, opere, ma anche omissioni.
Alla fine la classe che ha meno responsabilità e paga più conseguenze di tutti è proprio quella classe media, impiegatizia o di commercianti che non ha velleità di guidare la barca ed ha delegato.
Magari male, ma – come al mercato a mezzogiorno – la scelta è quella che è, ti devi accontentare.
Resta la generazione dei ventenni che, ancora, colpe non ne ha, ma di cattivi maestri, invece, ha l’imbarazzo della scelta….
Ma, come dice Ligabue, “Niente paura, ci pensa la vita…”Quale Calabria ci aspetta? Il futuro appare come un tunnel sprangato in fondo, ma, soprattutto, ciò che è accaduto ed accadrà in Calabria è tanto, troppo ben definito, nelle cause e negli effetti.
Partiamo dal passato e ragioniamo per generazioni di classi dirigenti, tenendo nel debito conto che, naturalmente, per ogni contesto esistono le dovute eccezioni che, tuttavia, proprio in quanto tali non riescono ad incidere più di tanto sul contesto medesimo.
Gli ultrasessantenni di oggi, coloro che spesso e volentieri si aggrappano ancora alla poltrona, sia essa politica o economico-finanziaria, hanno sulla coscienza in toto lo sfascio.
I trentacinque-quarantenni degli anni ’80, quando tutto pareva permesso e, soprattutto, privo di conseguenze, si sono spartiti il territorio e le risorse, hanno lottizzato le speranze ed il futuro dei calabresi.
Non ne avevano il diritto ma lo hanno fatto ed oggi, in massima parte sono ancora lì ad inventarsi l’ennesimo gioco di prestigio pur di non scendere dalla giostra.
Una giostra che, peraltro, dopo aver letteralmente smontato pezzo per pezzo, oggi fanno una gran fatica a gestire, a governare.
Una regione, la Calabria, in cui nessuna parte può chiamarsi fuori e che somiglia maledettamente, nelle sue distorsioni, al Paese, dove, per uno strano corto circuito, i politici fanno gli affaristi, i giudici fanno politica ed i giornalisti fanno i giudici.
Ma in realtà la somiglianza è solo apparente, perché chi conosce bene le cose di Calabria – soprattutto ponendo l’ago del compasso all’inizio degli anni ottanta – sa che da noi le cose sono andate in maniera un po’ diversa, con i politici –si - a fare spesso gli affaristi, troppo frequentemente al pari di certi giudici, ai quali dalle nostre parti non è mai fregato particolarmente di fare politica, mentre, per non sbagliare, i giornalisti guardavano trasformando il ruolo di cane da guardia della democrazia in cane da compagnia, quando non in cane da riporto.
Gli anni passano, tuttavia, i nodi vengono al pettine ed i giovani rampanti incalzano.
La generazione dei quarantenni di oggi assomma due peculiarità negative: la prima come vittima e la seconda come carnefice.
Si ritrova a dover pagare – salatissimo – il conto lasciato da chi li ha preceduti (e spesso è ancora in sella alla piramide politico-dirigenzial-imprenditoriale) e, di contro – salvo rare eccezioni – non ha gli strumenti culturali e spesso etici per poter nemmeno lontanamente sapere da dove cominciare per mettere una pezza al disastro.
Diciamolo chiaramente: il rampantismo fuori luogo e fuori contesto degli anni ’80-90 ha prodotto una generazione nella quale abbondano coloro che sono “senza né arte né parte”, i “senza domani” della politica.
Una volta, nel dubbio, per garantirsi in qualche modo un futuro decente si sceglieva, per esclusione, la strada della laurea in Giurisprudenza; i quarantenni di oggi in molti casi hanno pensato che “buttarsi in politica” alla fine è meno faticoso (i libri pesano sempre) e, comunque 4-500 voti si “arrangiano” in un modo o nell’altro e, male che vada, ti garantiscono uno stipendio.
E così il livello culturale, etico e politico delle Assemblee elettive calabresi è andato sprofondando sempre più, al punto da diventare, per i cittadini, addirittura imbarazzante assistere ad una qualunque seduta di un qualunque Ente (e meno male per la decenza pubblica che i media locali non trasmettono le sedute).
Qualche quarantenne o giù di lì di livello superiore alla media o non trova interlocutori o, peggio, riesce ad “incartare” tutti.
Ma i quarantenni senza né arte né parte in Calabria sono una triste realtà non solo nel mondo politico.
La galassia imprenditoriale – anche qui salvo rare eccezioni – è composta da “gente-che-si-è-fatta-dal-nulla”, il che, tradotto in italiano e depurato dal “berlusconismo” dilagante significa gente che in maniera strana, talvolta anche poco limpida, comunque sempre al di sopra delle righe, è divenuta interlocutore del mondo politico (in qualche caso, anzi creata ad arte dal mondo politico medesimo) ma senza il minimo respiro di prospettiva.
In troppi casi la storia ha dimostrato che più che di imprenditori si tratta di prenditori, di risorse pubbliche, comunali, regionali, statali o europee che siano, senza che a questa “presa” segua uno straccio di progetto di impresa, di sviluppo, di crescita sul territorio.
In troppi casi si è preferito il cesto di pesci piuttosto che la canna da pesca, ma – vivaddio – il modello culturale di riferimento qualcosa dovrà pure contare.
In questo clima da “ultima corsa, si salvi chi può”, anche i professionisti calabresi ed il mondo accademico hanno le loro responsabilità: ciascuno ha pensato solo ed esclusivamente al proprio orticello cercando la via più breve per mettersi in salvo, per garantirsi quella piccola fetta di potere da esercitare in maniera sinergica e/o funzionale ad un dominus investito di tale potere a seconda delle situazioni.
Pronti, comunque, a riciclarsi nascondendosi dietro il nobile paravento del “professionismo” che, però, dovrebbe riguardare solo l’aspetto, per l’appunto, strettamente professionale, mentre la sfera politico-sociale-amministrativa dovrebbe obbedire a ben altre logiche.
Il mondo accademico, dalla sua parte, invece di battere i pugni, provare a demolire il demenziale castello che si andava edificando ha pensato bene di tirar su il ponte levatoio e sguinzagliare i coccodrilli tranciando ogni rapporto con il resto della classe dirigente.
Ma, come recita il Vangelo, si può peccare in pensieri, parole, opere, ma anche omissioni.
Alla fine la classe che ha meno responsabilità e paga più conseguenze di tutti è proprio quella classe media, impiegatizia o di commercianti che non ha velleità di guidare la barca ed ha delegato.
Magari male, ma – come al mercato a mezzogiorno – la scelta è quella che è, ti devi accontentare.
Resta la generazione dei ventenni che, ancora, colpe non ne ha, ma di cattivi maestri, invece, ha l’imbarazzo della scelta….
Ma, come dice Ligabue, “Niente paura, ci pensa la vita…”

domenica 15 giugno 2008

La vergogna dell'Hospice di Reggio e la sindrome di capitan Uncino


“…sono devoto a capitan Uncino; ai suoi discorsi son sempre presente, ma non so bene cos’abbia in mente e non mi faccio più troppe domande. E non m’importa dov’è il potere, finchè continua a darmi da bere non lo tradisco e fino all’inferno lo seguirò…” (Edoardo Bennato)
Ma basta!
Basta!
Non se ne può più. Mentre la comunità è costretta, ogni giorno di più, ad organizzarsi in proprio per provare a prendere a spallate la montagna dell’ignavia, dell’indifferenza, la gente fa i conti con disastri sociali che si abbattono addosso senza che la classe dirigente muova un dito.
La vicenda dell’Hospice non rappresenta solo un momento di altissima gravità sociale, ma, soprattutto, lo specchio, l’emblema, la cartina di tornasole di ciò che accade.
Una struttura indispensabile per una società che voglia provare ad assomigliare a qualcosa di civile sta morendo giorno dopo giorno. La gente è stata costretta – sissignori, costretta – ad organizzarsi per la strada a mettere firme sotto un documento con il quale si chiede a chi di competenza ad attivarsi per evitare la chiusura.
Qui siamo veramente impazziti: bisogna raccogliere le firme per spingere la classe dirigente a fare il proprio dovere. Una classe dirigente i cui “sensori” che dovrebbero recepire le istanze dal basso e trasferirle in alto somigliano tanto ai devoti di capitan Uncino.
Una classe dirigente che non capisce cosa le viene chiesto e che, tantomeno, riesce a comprendere cosa abbia in mente il capitan Uncino di riferimento. Una classe dirigente che, da tempo, ha smesso di farsi domande in nome del bicchiere quotidiano che proprio capitan Uncino garantisce.
Ma la gente non ne può più. Qui si parla dell’Hospice, ma la tematica può spostarsi su altri crinali, ugualmente sdrucciolevoli, che presentano il medesimo grado di rischio.
Nessuno si chiami fuori, nemmeno la stampa.
Chi non è fedele ad un capitan Uncino scagli la prima pietra

giovedì 22 maggio 2008

La Franzoni ed Alessandro Manzoni


Manzoni scriveva che il coraggio o ce l'hai o non ce l'hai.

E però in alcuni campi, come la magistratura, il coraggio è necessario.

Ci vuole il coraggio di assolvere.

O di condannare.

Senza "ma" e senza "se".

La condanna della Franzoni a 16 anni per avere (così ha deciso lo Stato italiano) ucciso il proprio bimbo non ha senso.

Non si può essere "un poco incinta", non esistono le "orge moderate" e così via.

Il compromesso, in questi casi, puzza di paura, di meschinità.

Se le Corti hanno ritenuto colpevole oltre ogni ragionevole dubbio la Franzoni di un così orrendo delitto e non hanno - di converso - ritenuto che fosse in stato di incapacità di intendere e di volere, avrebbero dovuto condannarla al massimo della pena.

Se, invece, il quadro accusatorio non convinceva a pieno, allora si imponeva l'assoluzione.

A dispetto della piazza.

Ma Manzoni sapeva bene di cosa parlava...

mercoledì 30 aprile 2008

Un Paese impazzito


Ormai è ufficiale: l'Italia è un Paese impazzito.
Impazzito e bugiardo nelle sue più alte espressioni.
Andiamo per ordine: tra i primi siamo riusciti a verificare che era tutto vero: l'Agenzia delle Entrate aveva messo on line tutti i redditi 2005 di tutti gli Italiani (persone fisiche e giuridiche).
Insomma, per mezza giornata ogni cittadino del pianeta che avesse disponibile la connessione ad internet ha potuto impunemente controllare quanto ha dichiarato qualunque cittadino di questo "benedetto, assurdo Bel Paese".
Una follia allo stato puro, un servizio gratuito messo a disposizione delle associazioni criminali che ogni giorno devono faticare per pianificare il racket e, tutto sommato, anche a disposizione di chi volesse, ad esempio, organizzare un bel sequestro di persona.
Oppure, senza volere arrivare a tanto e con sommi sberleffi a quella privacy in nome della quale, ogni giorno, ci sentiamo sbattere mille porte in faccia per cose 1000 e 1000 volte più banali, questa pubblicazione ha consentito alla moglie di controllare i flussi economici del marito (o viceversa), al collega di ufficio di verificare se fosse vero che la signorina tal dei tali è particolarmente nelle grazie del capo che con lei è, magari, dichiarazione alla mano, stranamente di manica larga negli emolumenti.
O, ancora, potrà essere servito a chi sta vendendo qualcosa a rimodulare il prezzo sulla base del 730 dell'acquirente e così via; di esempi ce ne sarebbero infiniti.
Ma, dicevamo, è un Paese impazzito ma anche bugiardo.
Eh si, perchè mentre in poche ore montava la bufera che solo la rete sa creare, l'Agenzia delle Entrate e Visco hanno iniziato a balbettare bugie su bugie, arrivando a chiamare in causa il garante della privacy che, ben presto, non solo ha smentito di avere concesso qualsivoglia autorizzazione nè di essere mai stato destinatario di alcuna richiesta in tal senso, ma, soprattutto, ha immediatamente sospeso la pubblicazione degli elenchi.
Che i dati fiscali debbano essere sottoposti a verifiche rigorose, puntuali, incrociate è punto incontrovertibile; che sia necessaria la circolazione dei dati medesimi tra tutti gli Enti, gli Istituti preposti alla verifica è cosa buona e giusta; ma che, per motivi che sfuggono a chiunque, il mio vicino di casa al quale ho sempre negato - in maniera sacrosanta - il consenso ad ampliare la zona condominiale adducendo la mancanza di fondi debba oggi scoprire che sono solo un taccagno non è nè etico nè, tantomeno utile al Paese.
Con buona pace di chi sbandiera il sacro termine della democrazia senza sapere, evidentemente, di cosa parla o, quanto meno, dimenticandolo.
Il voyeurismo è pericoloso e, tutto sommato, innato in ciascuno di noi, ma offrire gli strumenti per alimentarlo e soddisfarlo è da Paese sottosviluppato nell'anima, nella coscienza, corrotto nello spirito.
Strill.it, in possesso tra i primi di quei dati, avrebbe potuto legittimamente pubblicarli, con riferimento al territorio, alla città. Avremmo potuto pubblicare i redditi del Sindaco e del Presidente del Consiglio regionale, di imprenditori noti in città, gli utili dichiarati per il 2005 dalla Reggina Calcio piuttosto che quelli di altre società, sportive e non
Sarebbe stato facile e legittimo.
Avremmo realizzato, al tempo stesso, il boom delle visite e del voyeurismo.
Non lo abbiamo fatto.
Non lo abbiamo fatto perchè la gente sta imparando a stimarci.
Non lo abbiamo fatto perchè con noi collaborano ben trenta ragazzi che sono puliti ed ai quali ci farebbe piacere insegnare pochi ma granitici principi che valgono per la professione e nella vita.
Non lo abbiamo fatto semplicemente perchè non si fa e perchè crediamo ancora che ci sia una possibilità di riportare sui binari della logica e della morale un Paese impazzito.
Non lo abbiamo fatto perchè preferiamo essere ingenui piuttosto che sfruttare la pazzia degli altri.

martedì 29 aprile 2008

Pietà per la dignità umana


Fare il giornalista è bello.

Fare il giornalista, talvolta, è atroce.

Non ti permette di respirare, di pensare, di consentire all'animo di prevalere sulle esigenze di cronaca, di notizia, di verità.

Ed allora, almeno qui, per una volta, la verità, la cronaca, i fatti, le motivazioni li voglio lasciare da parte.

Voglio lasciare spazio all'umana pietà, alla considerazione per l'essere umano in quanto portatore di una dignità propria, specifica, unica in quanto tale.

Non mi interessano le motivazioni che possono avere causato l'attentato a Nino Princi.

Penso ad un uomo senza più le gambe, le braccia e le vista.

Penso ai suoi familiari.

Penso.Con un peso sul cuore.

lunedì 31 marzo 2008

Se la morale è solo la conclusione delle favole


da www.strill.it
La buttiamo lì così, tutta d'un fiato perchè non la vogliamo filtrare da ragioni di "opportunità" che, come scritto più volte, sono estranee alla logica genetica e funzionale di strill.it: ma non è che, forse, a Reggio, in Calabria il valore supremo della vita umana è un pò più annacquato che altrove?
Non si può restare indifferenti rispetto alla sequela infinita di fatti di sangue, poco importa se originati da logiche di 'ndrangheta o da dinamiche di interessi familiari.
Certo, ogni generalizzazione è un errore a priori, ma, necessariamente, quando si deve analizzare un comportamento sociale non è possibile prescindere dai numeri, dalle statistiche.
Quelle stesse statistiche che ci dicono, da sempre, che in Calabria si ammazza con molta più facilità che altrove.
Ecco dove, probabilmente, entra in ballo il concetto di disvalore nella collettività.
Perchè se questo vacilla in assoluto, anche rispetto alla morte dei criminali più incalliti (quante volte ci siamo stretti nelle spalle chiosando un omicidio di 'ndrangheta con la fatidica frase "tanto, si ammazzano tra di loro"?), poi, giorno dopo giorno, come una macchia d'olio o, se preferite, un cancro, si allarga, si estende.
E, passata la concezione del disvalore con l'interruttore - a seconda, cioè della vittima - essa poi viene metabolizzata e, ahinoi, applicata, da chi mutua il principio del "disvalore condizionato" ma secondo le proprie concezioni etiche, culturali, morali.
E per ciascuno ci sarà sempre un interruttore, un qualcosa in nome del quale il valore supremo della vita umana può soccombere. Per onore, per soldi, per ira, per quello che volete.
Con un campo di applicazione di questo principio che si estende ogni giorno di più e spazia, secondo le logiche più differenti, dalla cosca che, in nome del "business", ormai accoppa anche donne e bambini (una volta questo limite non veniva mai valicato), al figlio di buona famiglia che arriva all'estremo gesto per interessi economici, piuttosto che a colui il quale imbraccia il fucile e spara perchè esasperato dai rumori di una moto.
Forse in Calabria, quasi geneticamente, ormai, abbiamo fatto troppo il "callo" al sangue, ad i morti ammazzati ed a convivere con una situazione per la quale in una provincia se un anno si chiude con "soli" 20 omicidi si brinda a campagne.
Tutto mettendo ogni giorno sotto i piedi i principi di una morale che, come diceva Longanesi, per troppi, ormai, si identifica solo con la conclusione delle favole.

mercoledì 19 marzo 2008

Scappa, figlia mia, che papà ti aiuta


E' un Paese che non mi piace più.

Una volta non mi piacevano le dinamiche di concezione e gestione dei rapporti pubblico-privato al Sud. Ora non mi piace in tutto il Paese.

Sciascia auspicava, anni fa, una sorta di italianizzazione della Sicilia e del Sud. Bene, è accaduta la meridionalizzazione dell'Italia.

E ciò è accaduto nella parte becera che il Sud (come ogni popolazione) si porta appresso.

E' saltato, in Italia, il sistema delle regole. Etico-morali prima e normative dopo.

In Italia, come già al Sud da un bel pezzo, è passato il principio che in qualche modo sia tutto possibile; che, insomma, vale tutto, come facevamo da ragazzini alla fine, negli ultimi minuti di un'interminabile partita al pallone.

L'etica è piegata all'interesse, la norma è modellata sull'obiettivo da raggiungere.

E' un Paese, il nostro, dove, ormai, i ruoli sono stati travolti. E' un Paese dove i politici fanno gli affaristi, i Giudici fanno politica ed i giornalisti si ergono a Giudici.

E' un Paese dove ad ogni minima occasione si sceglie di normare non normando. Ampliando, cioè, il margine di discrezionalità a dismisura. E così assistiamo - e non accade solo nelle aule di Tribunale- a due pesi e due misure, ma anche a venti pesi ed altrettante misure.

E' un Paese nel quale ciascuno fa ciò che vuole.

Chi governa, chi amministra la giustizia, chi opera nei mercati.

Somiglia sempre più ad una giungla dove vige solo la legge del più forte, dove chi è in condizione di battere più forte i pugni sul tavolo ha la meglio.

E' un Paese, appunto, dove si permette, sotto elezioni, alla Chiesa di dire la propria ogni giorno per orientare il voto del prossimo aprile.

Oggi è la mia prima festa del papà e vorrei tanto dire a lei "Scappa, figlia mia, scappa, che papà ti aiuta"

sabato 8 marzo 2008

Trent'anni per cambiare tutto; trent'anni per non mettere un punto


Trent'anni sono tanti. Trent'anni possono essere tantissimi, più di un secolo, se nella vita pubblica, nelle dinamiche del quotidiano ed in quelle dei macrosistemi è cambiato tanto.

E' cambiato tutto.

E però, nonostante tutto, nonostante che siano state accertate matrici e responsabilità, contesti e circostanze, il Paese i conti con quanto accaduto in via Fani quel 9 marzo del 1978 non risece proprio a farli. Ma stavolta lo spunto di riflessione lo affido a chi è più bravo, a valutare ed a scrivere. Invito tutti a leggere con attenzione il pezzo di Giuseppe D'Avanzo, pubblicato da Repubblica , ancorchè sia lungo. Ne usciremo un pò più consepevoli, forse un pò migliori


ROMA - Dicono che da quel giorno, in via Mario Fani all'incrocio con via Stresa, ci sia l'ombra lunga di una maledizione. Dicono che niente va come dovrebbe. I commerci s'inceppano. Gli alberi sfioriscono. Sull'angolo della strada c'era un salice, trent'anni fa - era il 16 marzo del 1978, quando le Brigate Rosse sequestrano Aldo Moro. Il salice disseccò d'improvviso qualche mese dopo la strage e nessuna accorta cura poté impedirne la morte. Dicono che fu il primo segno della malasorte. Non c'è più il fioraio, Antonio Spiriticchio. Non c'è più il chiosco dei giornali dei Pistolesi. La stazione di servizio si è trasformata in un lavaggio fai-da-te. Sugli angoli delle due strade che s'incrociano, appiccicati alla meno peggio ai cartelli stradali, decine di messaggi propongono "affari" immobiliari. Pare che chi ci abita faccia le valigie, appena può. Il bar che allora si chiamava "Olivetti" è diventato un ristorante, "La Camilluccia". È chiuso, con i tavoli abbandonati all'aperto sotto la pioggia alle nove del mattino - l'ora in cui le Brigate Rosse si mossero. Dicono che ci sia una maledizione e deve essere storiella metropolitana perché se si attraversa la strada verso via Stresa c'è ancora la siepe di pitosforo dove gli assassini attesero, nascosti. Il pitosforo è cresciuto e i tronchi ben potati sono ormai larghi come tre dita. C'è una gran calma. Il traffico è leggero e ordinato, attenuato dal recente sottopasso tra il Foro Italico e la Pineta Sacchetti. LE IMMAGINI Anche quel giorno il traffico non era intenso. Il piccolo corteo di auto (una 130, un'Alfetta) scendeva veloce dalla collina quando la 128 di Mario Moretti con una targa del Corpo diplomatico frenò di botto all'incrocio. Fu allora che gli altri, con gli impermeabili blu, i berretti da piloti dell'Alitalia, uscirono da dietro la siepe con le pistole e gli M12. Spararono 91 proiettili contro i cinque uomini della scorta di Moro, il maresciallo Oreste Leonardi, i brigadieri Domenico Ricci e Francesco Zizzi, gli agenti di polizia Giulio Rivera e Raffaele Iozzino - il solo che riuscì a replicare con due colpi. Furono annientati in una manciata di secondi.


* * * Non è la maledizione quel che abita in via Fani, queste sono sciocchezze. Quel che mette a disagio, se ci si guarda intorno, è la memoria. Un'ingombrante memoria, in questo colle di Roma, non aiuta quel po' di storia identitaria che abbiamo messo insieme negli ultimi trent'anni. L'immagine del passato è ancora lì incorrotta come per il ricordo dell'assassinio di JFK o dell'11 settembre. Non c'è chi non ricordi dov'era e con chi in quel momento, che cosa disse e fece in quel momento preciso quando seppe che cosa era accaduto a Roma. Non c'è chi non abbia ancora negli occhi - al punto da poterne sentire ancora l'ansia - i parabrezza frantumati, i fori neri nell'auto bianca, il corpo di Iozzino a braccia larghe coperto da un lenzuolo bianco e la macchia di sangue sull'asfalto - densa, scura - un caricatore vuoto accanto al marciapiede nel piano sequenza di 3 minuti e 12 secondi dell'operatore del Tg che accompagna la voce ansimante di Paolo Frajese. Quel che non va è la storia, non la memoria. La storia, dopo trent'anni, dovrebbe essere ferma, fissa in un ordine temporale chiuso e ordinato, immobile, ragionevolmente condivisa alle nostre spalle e dovrebbe essere deficit della memoria farsi abitualmente ondivaga, flessibile, soggettiva, un po' falsaria. Per il "caso Moro" quest'equilibrio è capovolto: la memoria è solida, resistente, "condivisa"; la storia è fragile, contraddittoria, incerta, ancora precaria, quasi impedita dalla memoria. Dalla memoria dei brigatisti che scrivono, parlano, raccontano tra silenzi e omertà; la memoria di chi era al potere in quei giorni e ancora ha voce oggi: più che parlare spiegando, dissimula, confonde reticente e ancora oggi nasconde che cosa è stato. Si può riattraversare la strada ora. Dalla siepe di pitosforo verso l'angolo dove furono bloccate le auto. Sul muro tufaceo c'è una lapide, protetta da un vetro, che ricorda i custodi di Moro. "In questo luogo cinque uomini, fedeli allo Stato e alla democrazia, sono stati uccisi con fredda ferocia mentre adempivano al loro dovere". Non si legge di Aldo Moro, come se quegli uomini non fossero morti per il presidente della Dc. Non si legge dei terroristi delle Brigate rosse, come se non fossero, loro, gli assassini. Sottratte le ragioni e i responsabili, chi ha ucciso quegli uomini e perché? Non c'è scritto. Come se non potesse essere ancora scritto. Come se fosse ancora troppo azzardato scolpirlo nella pietra. Come se ancora non se ne potesse fare "storia". Come se fossimo tutti d'accordo a consegnarci a una sorta di "smemoratezza patteggiata". * * * Aldo Moro fu ucciso in via Camillo Montalcini, 8. Al primo piano, interno 1, fu interrogato e "processato" per 54 giorni, prigioniero in un cubicolo largo poco più un metro e lungo quattro, ricavato con una parete di cartongesso nel salone doppio che dava su un piccolo giardino. La mattina del 9 maggio i suoi carcerieri lo fecero vestire con gli stessi abiti di marzo. Lo costrinsero in una cesta. Due rampe di scale. Il garage. Nel box, la Renault 4 amaranto era parcheggiata con il muso verso l'esterno. Entrarono. Lo sistemarono nel bagagliaio. Il corpo di traverso appoggiato sul fianco sinistro. Gli coprirono il volto con il lembo di una coperta di colore rosso bordò. Mario Moretti e Germano Maccari gli spararono con una Walter Ppk silenziata, che si inceppò subito, e due raffiche definitive di una Skorpion. Non c'è alcuna traccia di quest'orrore in via Montalcini. La via è deserta. Nemmeno al capolinea degli autobus più avanti c'è anima viva. La "prigione" ha le serrande abbassate come se l'appartamento fosse abbandonato e senza vita e ci si occupasse soltanto del piccolo giardino che appare ben curato. Nel condominio nessuno risponde al citofono. Sono tutti al lavoro. Pare che si venga qui soltanto per dormire. In strada, due manovali rumeni. Chiedere di Moro? Sul muro, non una targa né una lapide né alcun segno. Anche qui, non c'è traccia della "storia" in questa strada anonima e appartata della Portuense dove Anna Laura Braghetti e Germano Maccari vigilarono sul presidente della Dc e Mario Moretti lo interrogò. Un luogo introvabile in quei giorni. Invisibile, quasi misterioso nonostante le perquisizioni, gli accertamenti, i posti di blocco, le "battute". Ogni giorno per cinquantaquattro giorni ci furono in Italia 1294 posti di blocco (157 nella capitale), 1881 pattugliamenti (444 a Roma), 637 perquisizioni (173 a Roma). Furono controllati in quel periodo 6 milioni e mezzo di italiani e tuttavia per lo meno una ventina di brigatisti riuscirono con successo ad attraversare la capitale in lungo e in largo in quei giorni; a telefonare alla famiglia e agli amici del presidente della Dc da piazza Colonna, da via Giulio Cesare, dalla controllatissima Stazione Termini; a incontrarsi in piazza Barberini, all'angolo di via Veneto per decidere finalmente se uccidere o liberare il "prigioniero"; a cenare più volte a Trastevere con i leader dell'Autonomia sollecitati dal partito socialista a tentare una trattativa; a stampare volantini nella tipografia al 31 di via Pio Foà; a consegnarli nella Galleria Esedra, di fronte al Grand Hotel, in piazza Risorgimento, in piazzetta Augusto Imperatore, addirittura "nel quadrilatero del Palazzo" dentro il cestino della carta straccia di quella piazza del Gesù dove la sede della Democrazia era diventata l'epicentro della tragedia per gli uomini della Democrazia Cristiana - Zaccagnini, Anselmi, Misasi, Galloni, Pisanu, Bodrato, Taviani. Vi si riunivano in "costante contatto" con Cossiga (ministro dell'Interno), Andreotti (presidente del Consiglio), Fanfani (presidente del Senato), Leone (presidente della Repubblica) per decidere, come sostiene a ragione Giovanni Moro, di non decidere: evitarono ogni dialogo e trattativa con i sequestratori e si preclusero, nello stesso tempo, ogni possibilità di rintracciare davvero la prigione di Moro o gli appartamenti abitati dai terroristi (via Gradoli, via Chiabrera, Borgo Pio). Come, al contrario, si fece prima e dopo quel 16 marzo del 1978 per il giudice Mario Sossi, il generale James Lee Dozier, l'assessore regionale Ciro Cirillo. * * * La Renault 4 targata N56786 con il corpo di Aldo Moro, nascosto alla vista dalla coperta nel portabagagli, si muove intorno alle sette del mattino lungo le strade secondarie della Magliana, Monteverde, Trastevere. Poi, il ponte sul Tevere e il Ghetto. Piazza Mattei. Piazza Paganica. Botteghe Oscure deserta. L'auto volta a destra in via Michelangelo Caetani. La parcheggiano tra i civici 8 e 9 accostata allo stretto marciapiede di porfido, il muso rivolto verso via Funari. Via Caetani è una strada breve, austera, umida, buia. Ci si passa in fretta. C'è una sola macchia di colore nel grigio della pietra. È di fronte al palazzo che ospita l'Istituto di storia moderna, la Discoteca di Stato, il Centro studi americani. La macchia di fronte a Palazzo Caetani è di un giallo sbiadito lungo poco più di due metri, alto tre. Al centro, la lapide ricorda: "Cinquantaquattro giorni dopo il suo barbaro rapimento, venne ritrovato in questo luogo, la mattina del 9 maggio 1978, il corpo crivellato di proiettili di Aldo Moro. Il suo sacrificio freddamente voluto con disumana ferocia da chi tentava inutilmente d'impedire l'attuazione di un programma coraggioso e lungimirante a beneficio dell'intero popolo italiano resterà quale monito e insegnamento a tutti i cittadini per un rinnovato impegno di unità nazionale nella giustizia, nella pace, nel progresso sociale". Anche qui nessun accenno ai cinque uomini che, prima di Moro, sacrificarono la loro vita. Nessun riferimento, nessuna allusione alle Brigate rosse. Come se la strage di via Fani e l'assassinio di Moro non appartenessero alla stessa tragica parabola. Come se chi venisse dopo di noi non dovesse conoscere i responsabili e la ragione di quelle barbarie, la loro contiguità nella morte. Anzi, la ragione di quella tragedia è come nascosta, reinventata. Dicono che via Caetani sia stata una "scelta simbolica" per le Brigate rosse. Dicono che la strada è giusto nel mezzo tra il palazzo di via Botteghe Oscure, dov'era la direzione del Partito comunista, e palazzo Cenci Bolognetti che ospitava, a piazza del Gesù, gli uffici della direzione della Democrazia cristiana. Dicono che quell'uomo mostrato agli occhi del Paese come un fagotto gettato in fretta in un'auto doveva dire agli italiani quanto fosse impossibile e nefasto il patto politico del "compromesso storico". Nella costruzione di questa memoria - di questo bisogno di memoria - c'è una manipolazione, uno scarto anche toponomastico. Via Caetani non è nel mezzo tra Botteghe Oscure e Piazza del Gesù. È lontano un centinaio di metri dal palazzo rosso. È in un'altra direzione rispetto al palazzo bianco. La "nuova" collocazione di quella strada buia nel cuore di Roma scolpisce nella memoria collettiva una rappresentazione sapientemente alterata della morte di Aldo Moro. Liquida con una scelta perentoria ogni necessità di storia ("Tutto è così chiaro"). Ne confonde le logiche. Ne occulta le responsabilità. Rende di "geometrica potenza" la lucidità politica dell'assalto allo Stato delle Brigate rosse. Esalta la "fermezza" delle istituzioni pubbliche e delle forze politiche, anche quando è stata soltanto un espediente strumentale o ipocrita. Rende possibile una quieta "comunione nella dimenticanza" protetta da una memoria collettiva che lascia senza risposte assennate le questioni essenziali. Se le Brigate rosse o chi, attraverso loro, tirava dall'esterno o dall'interno i fili di una cospirazione voleva liberarsi dello scomodo Moro per impedire l'accesso dei comunisti nell'area di governo, perché rapirlo e non ucciderlo subito, lì a via Fani, con la sua scorta? È proprio vero che i comunisti avrebbero votato la fiducia al IV governo Andreotti, nonostante le perplessità sui nomi dei ministri? O al contrario fu il sequestro di Moro che li costrinse a metter da parte i molti dubbi che avrebbero dovuto sciogliere proprio quella mattina del 16 marzo? Quale influenza ebbe - non sul sequestro del presidente della Dc, ma negli ambigui 54 giorni che seguirono - quell'"area occulta del potere" che, negli italiani anni settanta, era particolarmente affollata di logge massoniche, servizi segreti "deviati", affaristi, neofascisti, mafiosi, grand commis, prelati, imprenditori e, sull'altro fronte, di sindacalisti, giornalisti, politici, intellettuali legati alla sinistra extraparlamentare e "rivoluzionaria"? * * * Eleonora Moro non abita più in via del Forte Trionfale, 79. Cinque anni fa, anche lei, è andata via. L'uomo che ripulisce il breve viale di accesso non l'ha mai conosciuta né vista. * * * Non c'è più la Democrazia cristiana. Non c'è più il Partito comunista. Non ci sono più quelle Brigate rosse. Quel mondo è scomparso. I morti sono sottoterra. Gli assassini sono liberi. Dopo trent'anni, abbiamo soltanto la nostra memoria a confondere ogni differenza. Può essere la conclusione, provvisoria. Non siamo riusciti a fare i conti con la nostra storia, con un assassinio che ha chiuso alle nostre spalle, come un cancello di pietra, i primi tre decenni della Repubblica. Questa collettiva impotenza ci consente soltanto i ricordi che ci fanno più comodo, che ci appaiono - al momento - più utili. Se così deve essere, il miglior ricordo è ancora oggi soltanto nelle parole che, nell'ora dell'addio, Aldo Moro scrisse a "Norina". "Bacia e carezza per me tutti, volto per volto, occhi per occhi, capelli per capelli. A ciascuno una mia immensa tenerezza che passa per le tue mani. Sii forte, mia dolcissima, in questa prova assurda e incomprensibile. Sono le vie del Signore. Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo".

giovedì 28 febbraio 2008

Stavolta non dico niente...


Stavolta non dico niente...mi affido solo alla "fredda cronaca"...

Catanzaro, procedimento a carico, tra gli altri, di Agazio Loiero:

settembre 2007: la Procura di Catanzaro (Pm De Magistris) chiude le indagini e consegna al Gup la richiesta di rinvio a giudizio per Agazio Loiero (ed altri). Loiero diventa formalmente imputato.

gennaio 2008: De Magistris è travolto dalla decisione del CSM che, però, non è esecutiva e, quindi, resta al suo posto

gennaio 2008: De Magistris va in ferie e non presenza alle udienze; poco male, l'ufficio di Procura è impersonale

febbraio 2008: il Gup rimanda le carte in Procura e chiede di specificare meglio i capi di imputazione, poco chiari

febbraio 2008: l'ufficio di Procura, dopo avere "sistemato" i capi di imputazione va in aula rappresentato dal dott. Curcio (De Magistris è ancora in ferie)

28 febbraio 2008: la Procura della Repubblica di Catanzaro (dott.Curcio), quella stessa Procura che aveva dato la patente di indagato prima ed imputato poi al Governatore della Calabria, sulla base delle stesse carte chiedeil proscioglimento con formula ampia. il Gup ci mette pochi minuti ad analizzare la situazione di Loiero e lo proscioglie.

De Magistris è in ferie.

Nella condizione migliore per essere giudicato vittima epurata o carnefice neutralizzato.

La Procura di Catanzaro dovrebbe essere sempre la stessa

mercoledì 13 febbraio 2008

Se un uomo è solo e disperato è pronto a tutto


Non serve essere genitore per misurare l'angoscia.

Non serve trasporre sui propri figli il dramma di undici bimbi sequestrati per capire a fondo la tragedia che ne deriva.

Quando, stamane, il cellulare è squillato perchè uno dei collaboratori di www.strill.it col tono da "edizione straordinaria" mi comunicava che "c'è uno che tiene in ostaggio dei bimbi in un asilo" la giornata è girata su sè stessa.

Il resto è noto: i lanci giornalistici, il susseguirsi degli eventi ed il lieto fine.

E' noto anche il tentativo di linciaggio ai dannni di Christian Familiari, 32 anni, mille problemi e nessuno che, prima di oggi, lo ascoltasse.

Va bene tutto, però no, i bimbi no! Siamo tutti d'accordo.

Ma chi lo ha visto da vicino Christian, chi ci ha parlato giura che, più della rabbia verso l'autore di un gesto turpe, ha preso il sopravvento la pietà per un uomo confuso, probabilmente perso, certamente stanco.

Il Sindaco Scopelliti, il capo della mobile Cortese, il Questore Giuffrè, i bimbi stessi, a modo loro, hanno sottolineato quanto la disperazione abbia vinto sulla ragione, sulla logica, spalancando la strada alla bestialità.

Latente in tutti noi, non dimentichiamolo.

martedì 29 gennaio 2008

Chiamate un medico. Ma di quelli bravi...

Allora, proviamo a ricapitolare: accade che in questo strampalato Paese, mentre più di qualcuno dovrebbe avere a cosa pensare, mentre una delle sempre più numerose stragi bestiali, di furia cieca e animalesca - quella di Erba - approda in Corte d'Assise, a Como, siano centinaia le persone in coda fin dalle sei del mattino davanti al Palazzo di Giustizia per accaparrarsi uno dei "preziosissimi" sessanta tagliandi che davano diritto ad assistere dal vivo al processo.


Ora, escludendo che si tratti di bramosia "tecnica", di cultori della materia, assistiamo alla rappresentazione più marcata della degenerazione della società. Tanti giovani, alcune massaie, qualche professionista, ma anche pensionati, impiegati che hanno chiesto un giorno di permesso, gente che magari ogni giorno maledice la vita perchè ti obbliga ad alzarti quando ancora è buio, ha scelto, per una volta, di farlo a gusto proprio.


Ed ha scelto di farlo solo per rivivere in aula la ricostruzione della violenza più belluina.


Belve, certo, quelle che agiscono come le cronache raccontano.


Ma gli altri, quelli in coda, come li definiamo???


In attesa di risposta, per favore, chiamate un medico.


Ma che sia bravo.

giovedì 24 gennaio 2008

"Legga di più, studi di più, si informi di più"

Bastano trent'anni e più per scrivere la storia nella sua genesi e nelle sue dinamiche evolutive?
Certamente no, ma - in un'era che corre e che brucia in un giorno ciò che prima stava a galla mesi - mettere i paletti sui fatti, scrostare qualche alone di ingiustificata leggenda è cosa non solo possibile ma anche doverosa.

Sono passati trent'anni esatti dal 1977-78, la punta più alta (o più bassa, fate voi) del delirio collettivo che caratterizzò gli anni '70.

Ed oggi, dopo oltre tre decenni, bisogna dirlo a chiare note: quegli anni rappresentano il punto più basso della storia postunitaria del Paese. Furono anni bui, violenti, in ogni settore. Violenza verbale e violenza fisica.

Certo, furono anche anni (come sempre in questi casi, la storia lo insegna) di grandi fermenti culturali, ma questo non basta per ammantarli di leggenda come qualcuno tenta di fare.

C'è una forte dose di equivoco sull'analisi degli anni '70 ed è tempo di spazzarla via.

La figuraccia rimediata da Floris, conduttore di Ballarò che, alla definizione di Giuliano Ferrara (che può stare simpatico o antipatico, ma sul cui spessore culturale non è lecito dubitare) di anni "maledetti" ha ribattuto sorridente ( e come sennò?) : "Per me, veramente, il 1978 è l'anno dei Mondiali di Argentina".

"Beato lei. Io, però, non ne farei un vanto. Legga di più, studi di più, si informi di più, caro Floris" ha risposto, caustico, Ferrara...


martedì 15 gennaio 2008

Non decidere è peggio che decidere male


Quante cose possono accadere in un anno?

Quente cose si possono fare?

Infinite?

No, infinite no, ma tante di sicuro si.

Un anno fa il Segesta veniva speronato nello Stretto, quattro persone chiudevano lì il loro percorso terreno.

E' passato un anno, fiumi di parole si sono spesi, spesso scientemente vuoti. Meglio, falsi.

Sullo Stretto non è cambiato nulla, la navigazione è insicura come allora.

Ancora una volta sulla gente si è abbattuta la iattura più grande; peggio delle decisioni sbagliate c'è solo il non decidere

sabato 5 gennaio 2008

Ed io sto con Napoli!


Non escludo che la mia passione per tutto ciò che è controverso, difficile, apparentemente dannato mi possa condizionare.

Non escludo che il fascino che, da sempre, esercitano su di me Napoli ed i Napoletani possa incidere sull'analisi.

E però io sto con Napoli; io, per quel poco, pochissimo che possa contare, sto con la gente di Napoli.

Nei giorni del delirio, della follia, dell'inferno (niente evoca più un girone dantesco di cataste di rifiuti che bruciano) più di qualche voce - anche autorevole - si è levata dicendo che, in fondo, i Napoletani in qualche modo se lo meritano o se la sono cercata questa situazione da incubo metropolitano.

Chi mi conosce sa quanto io sia duro, a tratti durissimo, nelle valutazioni quotidiane di ciò che accade in questo nostro sgangheratissimo Sud, spesso più carnefice che vittima del proprio destino.

Ma a tutto c'è un limite; se è vero che - come diceva Lincoln- "nessuno è in grado di governare un altro senza il suo consenso" è anche vero il contrario, soprattutto se da parte di chi, nei secoli, avrebbe dovuto governare nulla è arrivato.

Governare significa prima di ogni cosa scegliere. Chi governa, a qualunque livello, prima ancora di fare la cosa giusta, ha il dovere di fare delle scelte. Anche, anzi soprattutto se sono scomode.

Napoli (in realtà non solo Napoli, ma il capoluogo partenopeo è l'emblema di tutto ciò) ha sempre avuto solo disinteresse.

Oggi - in piena emergenza non certo originata dalla gente di Napoli - a loro si chiede senso civico, responsabilità rispetto delle regole, senso del dovere, idea di Stato.

Quello stesso Stato che non è riuscito a dare risposte alle più elementari ed ineludibili esigenze di un territorio: sicurezza, occupazione, lavoro, pulizia.

Non ce ne sono altri pilastri; a Napoli in particolare ed al Sud in genere, sono stati tutti abbattuti, sbriciolati da logiche spartitorie pluridecennali o forse da ricondurre addirittura ai primi tempi della fase postborbonica (anche questa originata da un ribaltone passato sopra la testa della gente, ma questa è un'alra storia).

Destra e sinistra, prima e seconda Repubblica hanno saccheggiato Napoli o, peggio, si sono svenduti alla minoranza che comanda illegalmente e senza scrupoli.

Ed ora si chiede a Napoli di dimostrare il senso dello Stato.

"Colpo di Stato, ma che colpo se lo Stato qui non c'è", cantava Stefano Rosso esattamente 30 anni fa.

Di acqua sotto i ponti ne è passata tanta, ma sembra scritta ieri