venerdì 15 gennaio 2010

Chi vive (e chi muore) in calabria. Ma il cielo non è più sempre più blu

da www. strill.it - “Chi vive in Calabria” era solo una strofa di quel capolavoro scritto 30 anni fa da Rino Gaetano.
Già, chi vive in Calabria. Viverci in Calabria, viverci e spesso anche morirci. Qualche volta fisicamente, spesso dentro. Questa è la Calabria del terzo millennio.
Nel secondo dopoguerra, come ad inizio del novecento e a fine ottocento la Calabria era una terra povera; povera di risorse, povera di prospettive, figlia diretta dei baronati, del latifondo e di una società che arricchiva pochi ricchi ed affamava tanti poveri, ma con una sua identità.
Il brigantaggio, per carità, esisteva già eppure, soprattutto negli anni ’50 e ’60, la Calabria aveva un proprio profilo che si alimentava di speranze di cambiamento.
Oggi, nel secondo decennio del terzo millennio, tutto pare perduto. Gli eserciti delle persone normali, semplici, per bene, sono sconfitti. Sconfitti negli ideali di vivere in una società normale a sua volta, con una sacca di malaffare congenita e da combattere, certo, ma pur sempre sacca.
Chi è cresciuto negli anni ’80-90 sa bene che la Calabria e Reggio in particolare hanno accettato in quegli anni in via inconsciamente definitiva il destino di chi la partita l’ha persa e prova solo a limitare il passivo. La pervasività della ‘ndrangheta è attorno a noi da sempre, ha il volto di quei compagni di scuola che abbiamo frequentato – e a modo nostro, per come si può farlo, con tutta l’anima da ragazzi amato – e che oggi si sono rivelati altra cosa da ciò che siamo noi, diversissimi da ciò che avremmo voluto fossero.
Noi abbiamo sempre avuto il coraggio di resistere (per chi non è stato costretto ad andare via), di accettare giorno dopo giorno soprusi, privazioni di legittime aspirazioni, castrazioni di opportunità, ma non quello di dare – tutti insieme – una svolta alla mentalità, al modo di pensare, all’acqua dove sguazzano i pesci della criminalità, che, prima di essere organizzata, è sociale, quasi antropologica.
In tanti, tantissimi che ogni giorno sbarcano il lunario con onestà – intellettuale e di comportamenti, a costo di sacrifici grossi – si sentiranno offesi da questa affermazione, ma la storia lo ha dimostrato e lo ribadisce ogni giorno: la rassegnazione quotidiana rispetto a qualunque nefandezza che aggredisca la polis fa il paio solo con l’individualità tipica delle popolazioni arabe dalle quali abbiamo ereditato l’indifferenza, quasi atarassia, rispetto alle cose più terribili che possano accaderci.
Abbiamo la sensazione, qualunque cosa accada, che – comunque – avrebbe potuto andarci peggio e mai, nemmeno per una volta, pensiamo a quanto meglio avremmo diritto a pretendere, invece, che le cose girino.
La ‘ndrangheta, nei decenni, col nostro spaventato eppure involontariamente complice silenzio, si è mangiata tutto. Si è mangiata serenità, soldi, ordine pubblico, sviluppo economico, corretto funzionamento della Pubblica Amministrazione, crescita sociale, percezione delle tematiche più delicate e, soprattutto, capacità di indignazione.
A forza di efferatezze ogni cosa ci pare normale. Ci pare assolutamente normale che ogni santa notte siano tre, quattro o cinque le bombe o gli incendi che solo nella città di Reggio caratterizzano lo scandire delle ore; ci pare assolutamente normale che le dinamiche elettorali siano spessissimo caratterizzate da voto di scambio; ci pare assolutamente normale che l’iniziativa economica, la libera impresa, sulla quale si fonda ogni stato liberale, ogni economia di libero scambio, sia non condizionata, ma totalmente comandata, in ogni suo respiro, dai voleri delle cosche e – ormai da due paia di decenni - dai loro referenti diretti che siedono nelle stanze dei bottoni.
Da troppo tempo la storia di questa città è stata scritta in pochi salotti da una ristretta oligarchia di potenti, di quella classe dirigente che, senza esclusione alcuna, si è fatta portavoce di interessi inconfessabili e di scopi turpi in nome di qualche dollaro in più.
Gente che per decenni si è venduta anima e territorio al diavolo senza comprendere – ma la presunzione e l’ignoranza rendono più ciechi di una benda – che il timone che si illudevano di tenere in pugno era ben saldo nelle mani proprio di quel diavolo che un bel giorno avrebbe fatto di loro, proprio di quei signori che gli avevano consentito - per interposta persona - l’accesso nei salotti, solo dei burattini.
E’ troppo tardi ora, dopo una “semplice” bomba dimostrativa davanti ad un portone chiedersi cosa ci facciano tutti questi mercanti nel tempio; sarebbe più facile, invece, chiedersi a chi appartenga il tempio, potremmo amaramente scoprire che i mercanti sono solo a casa loro e gli abusivi siamo noi, certamente i più numerosi, ma spesso i più silenziosi, i più inermi e non per questo esenti da colpe di fondo per avere consentito l’assedio del tempio quando, forse, ancora si poteva intervenire.
Certo, nessuno può chiedere alle persone normali di diventare eroi; uno Stato civile non deve mettersi in queste condizioni, ma – vivaddio – il peso dell’indignazione, del pubblico ludibrio, del disprezzo collettivo, quello dovrebbe ancora essere pressocchè obbligatorio e diffuso.
E non si creda che non servirebbe a nulla: anche in questo caso la storia ci ha insegnato che le cosche sono ben attente a non suscitare indignazione popolare; la criminalità ha sempre cercato, con comportamenti dei propri esponenti più portati – diciamo così – per le pubbliche relazioni, di farsi fare l’occhiolino dalla gente. Il percorso delle cosche cittadine più in vista degli ultimi decenni lo dice chiaramente: alla massa, tutto sommato, così antipatici certi personaggi non stanno.
Scomode queste verità? Può darsi, al pari del fatto che – ovviamente – pur essendo diffuse non possono considerarsi assolute. Però Reggio era riuscita a fare il callo anche ad una guerra durata sei anni (più del secondo conflitto mondiale) e che portò per le vie del capoluogo quasi mille morti. Per le strade, nei bar, ai semafori, con fucili, bazooka, autobomba. Erano gli anni 1985-1991, non un secolo fa. Eppure la città, ancora una volta, si chiuse in un lugubre silenzio, subendo i colpi, respirando a pieni polmoni l’aria della barbarie imposta da chi, entrando dal salotto, si era già preso il tempio.
E però perché le masse in qualche modo reagiscano, da sempre serve qualcuno o qualcosa che le trascini, che le stimoli e, ad onor del vero, per decenni la magistratura, le Forze dell’Ordine di questa città non hanno brillato per prontezza di riflessi e risultati operativi. Bisognerà attendere il 1991, con l’operazione “Santabarbara”, il 1993 con “Tirreno” e poi il 1995 con “Olimpia” ed il 1996 con “Valanidi” perché qualcosa si muova, fino ad arrivare agli ultimi anni in cui l’aria nei confronti dei mercanti che si sono presi il tempio è radicalmente mutata. Ora lo scontro, frontale, pare vicino. Non più la partita a scacchi (in qualche caso anche truccata) del passato, ma un face-to-face che potrebbe anche essere cruento.
D’altra parte mai nessuno sbarco dei liberatori in territori occupati è stato caratterizzato da rose e fiori né è stato totalmente scevro dalle operazioni di sabotaggio di qualcuno avvezzo al doppio gioco. La gente, a sua volta, prima di esporsi, ha bisogno di capire realmente che stavolta si può vincere; esporsi anche stavolta e perdere ancora potrebbe, poi, costare carissimo.
Eppure arriva un momento in cui tutti, anche coloro ai quali non si può chiedere di essere eroi, qualcosa devono rischiare nello schierarsi, anche solo per fare il tifo.
Quel momento coincide esattamente con la piena percezione del rischio che – poco per volta – i mercanti si siano presi tutto, anche i pensieri, i sogni e le speranze.
Quel momento arriva quando, per chi vive (e muore) in Calabria, anche la semplice quotidianità non è più la stessa, anche i gesti più banali e pregnati di dignità umana diventano difficili.
Quel momento arriva quando ti accorgi all’improvviso che non è vero che, qualunque cosa accada si va avanti come prima purchè non ti tocchi direttamente, non è vero che qualunque cosa accada il cielo è sempre più blu.
E quando arriva quel giorno è tempo di pensare a fare la strada per chi verrà dopo di noi, ammesso che avrà scelto, con azzardo e come cantava Rino Gaetano, di vivere in Calabria.