mercoledì 27 agosto 2008

Federalismo, ultima Thule?


Quanto vale un territorio?
Si, proprio in termini economici: quali sono gli indicatori dai quali desumere in termini concreti il contributo analitico di ciascun territorio rispetto, ad esempio, ad uno Stato?
Il federalismo incalza e, ormai, è un processo inarrestabile.
La battaglia, naturalmente, è sui parametri dei fondi perequativi Regione per Regione e qui fa bene Loiero ad alzare la voce (se la Calabria ne ha ancora) nel tentativo di strappare anche un euro in più.
Ma è bene comprendere tutti che siamo di fronte ad una svolta storica.
Nelle stanze dei bottoni della Regione Calabria, in maniera più o meno dissimulata, c’è tanta preoccupazione per ciò che sarà, per una consistente parte di fondi che, alla fine dei conti, non saranno più nella disponibilità della Calabria.
Ma – e torniamo alla domanda iniziale – quanto vale un territorio?
Un territorio vale – indiscutibilmente – per ciò che produce; per carità non deve e non può essere ricondotto tutto ad una logica aziendale.
Proprio in questi giorni un guru dell’economia mondiale come Mario Monti ricordava come il modello di riferimento dei Paesi più sviluppati non possa essere la pura economia di mercato, rilanciando, invece, quello nato nel dopoguerra di “economia sociale di mercato”.
Però, in questi limiti, è anche vero che un territorio non può pensare di stare in piedi solo su trasferimenti che arrivano dallo Stato centrale o dall’Europa e su commercio ed offerta di servizi (pochi e malridotti).
E la produzione dov’è?
Insomma – traffici di droga ed armi a parte – quanti e quali sono i settori o anche le singole aziende calabresi che stanno sui mercati, che sono competitivi?
Il riferimento al crimine potrà apparire sgraziato e fuori luogo, ma va letto come una provocazione voluta e che, come tutte le provocazioni, muove da dati reali.
Resta il fatto che il federalismo impone ad una Regione intera di cambiare.
Cambiare modi, cambiare testa, cambiare modelli di riferimento, anche se tutto ciò non sarà indolore e passerà attraverso periodi difficili e forse anche lunghi.
Il federalismo impone a tutti noi di cominciare a pensare di imparare a costruire una canna da pesca, piuttosto che, come spesso accade, ingegnarci su come recuperare un secchio di pesci già pescati – meglio se già cucinati – che saranno più comodi, ma non garantiscono il domani

lunedì 4 agosto 2008

Chi si è mangiato la Calabria?


Quasi un mese e mezzo di assenza dal blog; cose ne sono successe tante e, purtroppo, quasi tutte nella medesima direzione, quella di un Paese e, al suo interno, di una Regione, nella quale sono saltati i meccanismi.Tutti.

La valutazione che segue è stata pubblicata su http://www.strill.it/

Quale Calabria ci aspetta? Il futuro appare come un tunnel sprangato in fondo, ma, soprattutto, ciò che è accaduto ed accadrà in Calabria è tanto, troppo ben definito, nelle cause e negli effetti.
Partiamo dal passato e ragioniamo per generazioni di classi dirigenti, tenendo nel debito conto che, naturalmente, per ogni contesto esistono le dovute eccezioni che, tuttavia, proprio in quanto tali non riescono ad incidere più di tanto sul contesto medesimo.
Gli ultrasessantenni di oggi, coloro che spesso e volentieri si aggrappano ancora alla poltrona, sia essa politica o economico-finanziaria, hanno sulla coscienza in toto lo sfascio.
I trentacinque-quarantenni degli anni ’80, quando tutto pareva permesso e, soprattutto, privo di conseguenze, si sono spartiti il territorio e le risorse, hanno lottizzato le speranze ed il futuro dei calabresi.
Non ne avevano il diritto ma lo hanno fatto ed oggi, in massima parte sono ancora lì ad inventarsi l’ennesimo gioco di prestigio pur di non scendere dalla giostra.
Una giostra che, peraltro, dopo aver letteralmente smontato pezzo per pezzo, oggi fanno una gran fatica a gestire, a governare.
Una regione, la Calabria, in cui nessuna parte può chiamarsi fuori e che somiglia maledettamente, nelle sue distorsioni, al Paese, dove, per uno strano corto circuito, i politici fanno gli affaristi, i giudici fanno politica ed i giornalisti fanno i giudici.
Ma in realtà la somiglianza è solo apparente, perché chi conosce bene le cose di Calabria – soprattutto ponendo l’ago del compasso all’inizio degli anni ottanta – sa che da noi le cose sono andate in maniera un po’ diversa, con i politici –si - a fare spesso gli affaristi, troppo frequentemente al pari di certi giudici, ai quali dalle nostre parti non è mai fregato particolarmente di fare politica, mentre, per non sbagliare, i giornalisti guardavano trasformando il ruolo di cane da guardia della democrazia in cane da compagnia, quando non in cane da riporto.
Gli anni passano, tuttavia, i nodi vengono al pettine ed i giovani rampanti incalzano.
La generazione dei quarantenni di oggi assomma due peculiarità negative: la prima come vittima e la seconda come carnefice.
Si ritrova a dover pagare – salatissimo – il conto lasciato da chi li ha preceduti (e spesso è ancora in sella alla piramide politico-dirigenzial-imprenditoriale) e, di contro – salvo rare eccezioni – non ha gli strumenti culturali e spesso etici per poter nemmeno lontanamente sapere da dove cominciare per mettere una pezza al disastro.
Diciamolo chiaramente: il rampantismo fuori luogo e fuori contesto degli anni ’80-90 ha prodotto una generazione nella quale abbondano coloro che sono “senza né arte né parte”, i “senza domani” della politica.
Una volta, nel dubbio, per garantirsi in qualche modo un futuro decente si sceglieva, per esclusione, la strada della laurea in Giurisprudenza; i quarantenni di oggi in molti casi hanno pensato che “buttarsi in politica” alla fine è meno faticoso (i libri pesano sempre) e, comunque 4-500 voti si “arrangiano” in un modo o nell’altro e, male che vada, ti garantiscono uno stipendio.
E così il livello culturale, etico e politico delle Assemblee elettive calabresi è andato sprofondando sempre più, al punto da diventare, per i cittadini, addirittura imbarazzante assistere ad una qualunque seduta di un qualunque Ente (e meno male per la decenza pubblica che i media locali non trasmettono le sedute).
Qualche quarantenne o giù di lì di livello superiore alla media o non trova interlocutori o, peggio, riesce ad “incartare” tutti.
Ma i quarantenni senza né arte né parte in Calabria sono una triste realtà non solo nel mondo politico.
La galassia imprenditoriale – anche qui salvo rare eccezioni – è composta da “gente-che-si-è-fatta-dal-nulla”, il che, tradotto in italiano e depurato dal “berlusconismo” dilagante significa gente che in maniera strana, talvolta anche poco limpida, comunque sempre al di sopra delle righe, è divenuta interlocutore del mondo politico (in qualche caso, anzi creata ad arte dal mondo politico medesimo) ma senza il minimo respiro di prospettiva.
In troppi casi la storia ha dimostrato che più che di imprenditori si tratta di prenditori, di risorse pubbliche, comunali, regionali, statali o europee che siano, senza che a questa “presa” segua uno straccio di progetto di impresa, di sviluppo, di crescita sul territorio.
In troppi casi si è preferito il cesto di pesci piuttosto che la canna da pesca, ma – vivaddio – il modello culturale di riferimento qualcosa dovrà pure contare.
In questo clima da “ultima corsa, si salvi chi può”, anche i professionisti calabresi ed il mondo accademico hanno le loro responsabilità: ciascuno ha pensato solo ed esclusivamente al proprio orticello cercando la via più breve per mettersi in salvo, per garantirsi quella piccola fetta di potere da esercitare in maniera sinergica e/o funzionale ad un dominus investito di tale potere a seconda delle situazioni.
Pronti, comunque, a riciclarsi nascondendosi dietro il nobile paravento del “professionismo” che, però, dovrebbe riguardare solo l’aspetto, per l’appunto, strettamente professionale, mentre la sfera politico-sociale-amministrativa dovrebbe obbedire a ben altre logiche.
Il mondo accademico, dalla sua parte, invece di battere i pugni, provare a demolire il demenziale castello che si andava edificando ha pensato bene di tirar su il ponte levatoio e sguinzagliare i coccodrilli tranciando ogni rapporto con il resto della classe dirigente.
Ma, come recita il Vangelo, si può peccare in pensieri, parole, opere, ma anche omissioni.
Alla fine la classe che ha meno responsabilità e paga più conseguenze di tutti è proprio quella classe media, impiegatizia o di commercianti che non ha velleità di guidare la barca ed ha delegato.
Magari male, ma – come al mercato a mezzogiorno – la scelta è quella che è, ti devi accontentare.
Resta la generazione dei ventenni che, ancora, colpe non ne ha, ma di cattivi maestri, invece, ha l’imbarazzo della scelta….
Ma, come dice Ligabue, “Niente paura, ci pensa la vita…”Quale Calabria ci aspetta? Il futuro appare come un tunnel sprangato in fondo, ma, soprattutto, ciò che è accaduto ed accadrà in Calabria è tanto, troppo ben definito, nelle cause e negli effetti.
Partiamo dal passato e ragioniamo per generazioni di classi dirigenti, tenendo nel debito conto che, naturalmente, per ogni contesto esistono le dovute eccezioni che, tuttavia, proprio in quanto tali non riescono ad incidere più di tanto sul contesto medesimo.
Gli ultrasessantenni di oggi, coloro che spesso e volentieri si aggrappano ancora alla poltrona, sia essa politica o economico-finanziaria, hanno sulla coscienza in toto lo sfascio.
I trentacinque-quarantenni degli anni ’80, quando tutto pareva permesso e, soprattutto, privo di conseguenze, si sono spartiti il territorio e le risorse, hanno lottizzato le speranze ed il futuro dei calabresi.
Non ne avevano il diritto ma lo hanno fatto ed oggi, in massima parte sono ancora lì ad inventarsi l’ennesimo gioco di prestigio pur di non scendere dalla giostra.
Una giostra che, peraltro, dopo aver letteralmente smontato pezzo per pezzo, oggi fanno una gran fatica a gestire, a governare.
Una regione, la Calabria, in cui nessuna parte può chiamarsi fuori e che somiglia maledettamente, nelle sue distorsioni, al Paese, dove, per uno strano corto circuito, i politici fanno gli affaristi, i giudici fanno politica ed i giornalisti fanno i giudici.
Ma in realtà la somiglianza è solo apparente, perché chi conosce bene le cose di Calabria – soprattutto ponendo l’ago del compasso all’inizio degli anni ottanta – sa che da noi le cose sono andate in maniera un po’ diversa, con i politici –si - a fare spesso gli affaristi, troppo frequentemente al pari di certi giudici, ai quali dalle nostre parti non è mai fregato particolarmente di fare politica, mentre, per non sbagliare, i giornalisti guardavano trasformando il ruolo di cane da guardia della democrazia in cane da compagnia, quando non in cane da riporto.
Gli anni passano, tuttavia, i nodi vengono al pettine ed i giovani rampanti incalzano.
La generazione dei quarantenni di oggi assomma due peculiarità negative: la prima come vittima e la seconda come carnefice.
Si ritrova a dover pagare – salatissimo – il conto lasciato da chi li ha preceduti (e spesso è ancora in sella alla piramide politico-dirigenzial-imprenditoriale) e, di contro – salvo rare eccezioni – non ha gli strumenti culturali e spesso etici per poter nemmeno lontanamente sapere da dove cominciare per mettere una pezza al disastro.
Diciamolo chiaramente: il rampantismo fuori luogo e fuori contesto degli anni ’80-90 ha prodotto una generazione nella quale abbondano coloro che sono “senza né arte né parte”, i “senza domani” della politica.
Una volta, nel dubbio, per garantirsi in qualche modo un futuro decente si sceglieva, per esclusione, la strada della laurea in Giurisprudenza; i quarantenni di oggi in molti casi hanno pensato che “buttarsi in politica” alla fine è meno faticoso (i libri pesano sempre) e, comunque 4-500 voti si “arrangiano” in un modo o nell’altro e, male che vada, ti garantiscono uno stipendio.
E così il livello culturale, etico e politico delle Assemblee elettive calabresi è andato sprofondando sempre più, al punto da diventare, per i cittadini, addirittura imbarazzante assistere ad una qualunque seduta di un qualunque Ente (e meno male per la decenza pubblica che i media locali non trasmettono le sedute).
Qualche quarantenne o giù di lì di livello superiore alla media o non trova interlocutori o, peggio, riesce ad “incartare” tutti.
Ma i quarantenni senza né arte né parte in Calabria sono una triste realtà non solo nel mondo politico.
La galassia imprenditoriale – anche qui salvo rare eccezioni – è composta da “gente-che-si-è-fatta-dal-nulla”, il che, tradotto in italiano e depurato dal “berlusconismo” dilagante significa gente che in maniera strana, talvolta anche poco limpida, comunque sempre al di sopra delle righe, è divenuta interlocutore del mondo politico (in qualche caso, anzi creata ad arte dal mondo politico medesimo) ma senza il minimo respiro di prospettiva.
In troppi casi la storia ha dimostrato che più che di imprenditori si tratta di prenditori, di risorse pubbliche, comunali, regionali, statali o europee che siano, senza che a questa “presa” segua uno straccio di progetto di impresa, di sviluppo, di crescita sul territorio.
In troppi casi si è preferito il cesto di pesci piuttosto che la canna da pesca, ma – vivaddio – il modello culturale di riferimento qualcosa dovrà pure contare.
In questo clima da “ultima corsa, si salvi chi può”, anche i professionisti calabresi ed il mondo accademico hanno le loro responsabilità: ciascuno ha pensato solo ed esclusivamente al proprio orticello cercando la via più breve per mettersi in salvo, per garantirsi quella piccola fetta di potere da esercitare in maniera sinergica e/o funzionale ad un dominus investito di tale potere a seconda delle situazioni.
Pronti, comunque, a riciclarsi nascondendosi dietro il nobile paravento del “professionismo” che, però, dovrebbe riguardare solo l’aspetto, per l’appunto, strettamente professionale, mentre la sfera politico-sociale-amministrativa dovrebbe obbedire a ben altre logiche.
Il mondo accademico, dalla sua parte, invece di battere i pugni, provare a demolire il demenziale castello che si andava edificando ha pensato bene di tirar su il ponte levatoio e sguinzagliare i coccodrilli tranciando ogni rapporto con il resto della classe dirigente.
Ma, come recita il Vangelo, si può peccare in pensieri, parole, opere, ma anche omissioni.
Alla fine la classe che ha meno responsabilità e paga più conseguenze di tutti è proprio quella classe media, impiegatizia o di commercianti che non ha velleità di guidare la barca ed ha delegato.
Magari male, ma – come al mercato a mezzogiorno – la scelta è quella che è, ti devi accontentare.
Resta la generazione dei ventenni che, ancora, colpe non ne ha, ma di cattivi maestri, invece, ha l’imbarazzo della scelta….
Ma, come dice Ligabue, “Niente paura, ci pensa la vita…”